Quanti lavorano nella scuola e ne hanno a cuore le sorti non possono che condividere ogni iniziativa che tenda a sviluppare un serio discorso sul futuro dell’istruzione e della formazione nel nostro Paese. Assai di frequente le questioni legate alla stretta attualità spingono in secondo piano le tematiche che affrontano in modo realistico e complessivo le dinamiche scolastiche.
Così è accaduto — per citare esempi assai prossimi — per la Buona Scuola, dove la discussione si è frammentata in concomitanza con la molteplicità degli interventi previsti dalla legge 107/2015. Analogo rischio, stando per ora ai documenti, si prefigura a proposito del Piano nazionale per la scuola digitale. Nelle 140 pp. del testo-guida si registra una scarsa attenzione circa le ricadute sulle conseguenze e la qualità degli apprendimenti. Nell’uno e nell’altro caso si direbbe che prevalga un efficientismo pragmatico nel quale le idee da discutere sono frettolosamente sovrastate dai problemi da risolvere.
Va riconosciuto all’articolo di Ernesto Galli della Loggia apparso venerdì scorso, 6 novembre, sul Corriere della Sera (“Che errore ignorare la scuola”) di muoversi in un contesto molto diverso. Il merito dello scritto è infatti quello di interrogarsi non su questioni settoriali, ma su come affrontare il cuore della questione scolastica: la scuola è ancora in grado di svolgere il suo storico ruolo di disciplinamento sociale e di trasmissione culturale da una generazione all’altra?
L’autore esprime la preoccupazione che per varie ragioni la scuola stia smarrendo — o, addirittura, abbia già smarrito — queste fondamentali caratteristiche per due ragioni principali. La prima è la rinuncia a esercitare qualsiasi funzione sanzionatoria rispetto ai crescenti casi di indisciplina e qualsiasi azione selettiva rispetto alla qualità degli apprendimenti. La seconda è una netta sfiducia manifestata verso l’autonomia scolastica nella quale — in verità un’autonomia incompiuta — si svolge da circa un quindicennio la vita delle scuole.
Galli della Loggia produce, a sostegno della sua prima tesi, la descrizione di una scuola in cui sarebbero ormai dominanti l’indisciplina, l’arroganza dei genitori, un “permissivismo distruttivo e frustrante” il cui esito pratico sarebbe quello della “promozione d’ufficio”.
Ma chi conosce da vicino la scuola — sono d’accordo: non i burocrati ministeriali e neppure i ricercatori dell’Invalsi, i primi immersi nelle carte, i secondi nelle elaborazioni statistiche — e cioè quanti hanno consuetudine abituale con dirigenti e docenti e conoscono le difficoltà incontrate quotidianamente, fatica a condividere la drastica e severa analisi dello storico romano. Senza sottovalutare il fatto, ovviamente, che sussistano purtroppo fenomeni come quelli denunciati, la realtà scolastica alla prova dei fatti è assai più complessa e articolata.
Non esiste più una “scuola italiana” abbastanza uniforme da poter essere generalizzata, come forse poteva accadere in un passato ormai lontano, ma esistono tante scuole quante solo le contrade del nostro Paese, molto spesso istituti assai diversi gli uni dagli altri nello stesso territorio (non c’è bisogno di guardare alla realtà del Nord e a quella del Sud per scoprire differenze anche molto marcate), le cui differenti prestazioni sono legate a molteplici fattori tra cui quello umano (leggi: preparazione culturale e competenze didattiche dei docenti) occupa senz’altro il primo posto.
Si può forse solo dire, a livello generale, che negli ultimi 20-30 anni sono stati compiuti notevoli progressi — e altri sforzi si dovranno ancora fare — nel contrastare frequenze irregolari, abbandoni, fenomeni dispersivi che erano, e in parte sono ancora, il bubbone malefico (come un tempo era l’analfabetismo) della scuola aperta a tutti. In questo periodo ha preso consistenza una cultura scolastica inclusiva e non più selettiva, impegnata ad assicurare, per quanto possibile, a tutti gli alunni le conoscenze necessarie per un inserimento sociale e lavorativo degno di questo nome. In altre parole: se si vuole restare aderenti alla realtà non si può giudicare la realtà odierna con i criteri impiegati quando la scuola era fortemente selettiva.
Galli della Loggia ha certamente ragioni da vendere quando lamenta che all’uscita dalla terza media ci sono ragazzi che non padroneggiano la lingua italiana e non sanno risolvere piccoli problemi di matematica. Ma l’esperienza ci suggerisce che non sono le bocciature — almeno a livello degli anni d’istruzione obbligatoria — a risolvere problemi di questo genere. Chi è bocciato sarà promosso l’anno successivo senza cambiare di una virgola oppure lascerà precocemente la scuola.
Ben più efficaci delle bocciature si rivelano, invece, le iniziative specifiche e “personalizzate” (come si dice oggi) messe in atto per accompagnare gli alunni in maggiori difficoltà perché poco dotati, provenienti da ambienti deprivati, di famiglie straniere, compresi i bulletti rompiscatole, difficili da gestire, ma pure anch’essi bisognosi (e forse più altri) di cure educative.
Riconosco che mentre la logica inclusiva ha compiuto discreti progressi, purtroppo meno fortuna hanno incontrato le strategie didattiche per il rafforzamento delle capacità degli alunni migliori. Le scuole tendono ad appiattire le differenti potenzialità degli allievi e rinunciano a tenere viva, contestualmente, anche l’esigenza meritocratica.
Per contrastare la tendenza all’appiattimento indifferenziato e perché anche la scuola aperta a tutti non rinunci a essere “scuola di qualità” occorre che disponga di docenti più qualificati, più apprezzati socialmente, più pagati. Da tempo immemorabile manca invece una politica del personale degna di questo nome. Di aggiornamento e formazione degli insegnanti si è tornati a parlare solo di recente. Per moltissimo tempo è prevalsa la convinzione (illusoria) che una volta conquistato il fatidico posto di ruolo (o l’incarico stabile) per la restante parte della carriera si potesse vivere di rendita.
Galli della Loggia punta, poi, il dito contro l’autonomia scolastica, lamentando che si sia persa per la strada la capacità ministeriale di vedere e provvedere di conseguenza, denunciando il rischio di un liberismo scolastico centrato sulla concorrenza tra gli istituti. Se l’autonomia producesse solo questi esiti sarebbe certamente da ripensare.
Due brevi osservazioni. La prima riguarda l’oggettiva impossibilità che un qualsiasi “centro” (ministeriale o regionale) possa gestire in modo uniforme o abbastanza uniforme, come è accaduto per un secolo e mezzo, un sistema irreversibilmente molto articolato e differenziato. L’uniformità poteva essere un pregio quando si combatteva l’analfabetismo e si tendeva a rendere uniforme la preparazione di quanti erano destinati ad accedere alle professioni cosiddette “alte”. Nella realtà della scuola aperta a tutti il governo del sistema è giocoforza obbligato a essere flessibile e a concedere ampio spazio alla professionalità dei docenti e cioè a quanti sono in prima linea e possono decidere quali soluzioni sono più efficaci.
Seconda osservazione. L’autonomia è anche qualcosa di più di una semplice strategia efficientistico-gestionale. Può essere orientata — e così era pensata dai promotori della svolta del 1997 — anche nel senso proposto dalla cultura sussidiaria. In questa ottica l’autonomia rappresenta una grande occasione per fare della scuola un centro vitale di cittadinanza e cioè un luogo di convergenza di interessi tra insegnanti, dirigenti, famiglie, enti e soggetti locali. Se ciascuna parte riconosce e assume le proprie responsabilità (compresi i genitori spesso troppo centrati sulla difesa dei figli) si può generare una scuola vissuta come un bene sociale prezioso da custodire e rafforzare.
Non è un’utopia: in tante realtà italiane già esistono esperienze in cui la vita della scuola (specialmente quella del primo ciclo) è strettamente congiunta alla vita della comunità di appartenenza. Basta pensare, ad esempio, alle situazioni in cui (come quelle montane) si rischia di veder chiudere le scuole e gli enti locali, le famiglie e le forze sociali operano per scongiurare questa eventualità. E, per citare un altro esempio, come non apprezzare quei genitori che di tasca propria ripuliscono la scuola, la rendono più attraente e più sicura senza attendere i soldi dello Stato? E ancora: quante interazioni positive tra scuole e mondo produttivo sono state realizzate in varie parti d’Italia senza pregiudizi o secondi fini.
Non penso che si possa pensare al ritorno della “scuola dello Stato”, un capitolo chiuso dopo una lunga e meritoria storia. Il futuro è affidato alla capacità di dar vita a un’autonomia piena, seriamente monitorata e regolata dalle necessarie compensazioni per garantire l’equità tra situazioni obiettivamente diverse.
Un’autonomia, dunque, non liberista, ma piuttosto di segno comunitario: non una scuola centrata sulla concorrenza, ma esito di un’alleanza sociale tra soggetti che, a titolo diverso, vedono nella scuola un investimento per il futuro.