Leggendo le opere dei grandi autori greci – poeti e drammaturghi, narratori e oratori – uno degli aspetti che appaiono più evidenti è l’interesse per la fecondità. L’apaidìa, l’assenza di figli per sterilità o la loro perdita, è uno dei dolori più grandi: non a caso Solone, nel discorso sulla felicità tramandato da Erodoto, pone fra gli elementi essenziali l’avere figli, e figli di figli, forti, belli e devoti. In una cultura che vede in modo nebuloso la sopravvivenza dopo la morte, la certezza che qualcosa di sé sopravviva è affidata alla prole, e insieme la speranza di cure nella vecchiaia, di eredi per i propri beni o, trasposta in ambito mitico, per la propria dinastia. È un desiderio struggente in tutte le culture antiche, come in quella biblica: “Ecco, io non sono che un albero secco” dice in Isaia l’eunuco, a cui il Signore risponde promettendo “un posto e un nome, migliore di figli e figlie, un nome eterno che non perirà”; ma a Sara e Abramo, ad Anna ed Elcana, a Elisabetta e Zaccaria viene donato il figlio atteso.
Di fronte ad un desiderio così ampiamente testimoniato, come vivono il rapporto genitori-figli i personaggi del mondo poetico greco? È importante chiederselo, perché lo scrittore, soprattutto il poeta epico e tragico, compone per essere testimone o, più esplicitamente, maestro: le sue storie, per lo più tratte dal patrimonio mitico, sono paradigmatiche per il pubblico, sia esso occasionale o riunito nel teatro ateniese. Il quadro che ci viene fornito è molto ampio, a riprova di un’esperienza profonda della realtà. Incontriamo giovani cresciuti senza padre, partito per grandi imprese e mai più tornato, o atteso da troppo tempo, giovani dall’adolescenza difficile, divisi fra nostalgia, desiderio di emulazione e solitudine crucciata. Vi sono padri e madri capaci di comunicare fiducia, proporre riconciliazione, suggerire ideali grandi, sacrificarsi per i figli, ma anche genitori chiusi nella propria realizzazione, o divisi fra loro, fino ad utilizzare i figli come strumenti di vendetta reciproca. Troviamo figli delusi nelle aspettative, incompresi nelle scelte, ma anche devoti, disposti al perdono (un’eccezione straordinaria nel paganesimo), portatori di novità.
E se l’apaidìa è una sofferenza, spesso non impedisce la fecondità del cuore. Da Omero ai tragici incontriamo una straordinaria serie di figure genitoriali sostitutive: il maestro di Achille, condannato alla sterilità ma ricco di una grande capacità educativa; Filottete, l’esule amareggiato che sa penetrare nel cuore di un giovane ambizioso; la vergine sacerdotessa di Apollo che fa da madre, finché il dio vuole, al bambino abbandonato; e altri maestri, amici, servi, compagni più grandi. O i nonni, rimasti privi dei figli ma tenaci nell’allevare e difendere i nipoti ormai soli.
Qual è il ruolo degli dèi in questi rapporti? Spesso è ambiguo e deludente. Perché spesso sono gli dèi stessi i padri assenti: Zeus per Eracle e i suoi figli, ancora Zeus per il piccolo figlio di Danae, Apollo per Ione. Le donne amate per un breve momento, a volte chi si è trovato da allevare un figlio non suo, hanno parole dure per “gli dèi che si fanno chiamare padri e poi stanno a guardare tali sventure”, come dice un personaggio di Sofocle. E se a volte gli dèi intervengono lo fanno in modo goffo e tardivo. Eppure dove gli dèi sono più presenti, più compagni, anche il rapporto educativo è più facile, come quello fra Odisseo e Telemaco sotto l’ombra di Atena.
Che interesse ha tutto questo per noi? Sappiamo – ce lo ricorda continuamente anche il Papa, lo vediamo nell’esperienza di scuola – che stiamo vivendo un’emergenza educativa. Sembra importante quindi rivolgersi ad un mondo lontano ma sempre vicino per la continuità del cuore umano. Il desiderio di fecondità, il bisogno di figure adulte di riferimento, genitori o maestri, ci accomuna agli antichi: solo che loro erano ancora in attesa del rivelarsi del Padre.
Giulia Regoliosi, In attesa del padre. Storie di genitori e figli nella letteratura greca, Aracne 2010