E’ freschissima la nuova bocciatura da parte di S&P, famosa agenzia di rating, del nostro paese. Certo, il sistema economico italiano sta passando anni durissimi attraverso la crisi che tutti conosciamo, e la politica è appena entrata nell’ennesima bufera giudiziaria che produrrà chissà quali e quanti sommovimenti. Il pensiero di un futuro di sviluppo, concretamente percorribile con azioni positive e costruttive, sembra essere sempre minacciato da nuovi avvenimenti, oltre che dai proverbiali problemi del nostro Paese.
Pensare al futuro della nazione implica necessariamente rivolgere le nostre attenzioni all’ambito della formazione, e in particolare quella universitaria e post-universitaria. La sofferenza si avverte anche qui, ma non tanto per mancanza di fondi, quanto per una non-visione capace di intervenire sanando e rivitalizzando: sembra non esserci un orizzonte condiviso verso il quale traghettare il nostro sistema accademico e di ricerca.
Sistema dal quale i più bravi ormai tendono a uscire, dopo aver ricevuto una preparazione adeguata — come una lettera a Repubblica di un ricercatore italiano emigrato in Inghilterra ha negli ultimi giorni sottolineato —, per mancanza di prospettive. I migliori “prodotti” del sistema di alta formazione italiano sono sempre più costretti loro malgrado a cercare fortuna presso altri lidi. Un dato in questo senso può fare riflettere: nel 2013 il numero di studenti del Politecnico di Milano che dopo la laurea sono andati all’estero è cresciuto del 9% rispetto all’anno precedente (dati Rapporto Specula 2014, Eupolis-Unioncamere). Un’emorragia in piena regola.
Se il tema del post-laurea per quanto riguarda gli italiani sembra essere dominato dalla “fuga dei cervelli” verso lidi più attrattivi, cosa possiamo dire dei nostri percorsi accademici?
Per comprendere bene i problemi è utile guardare i numeri. Negli ultimi anni, a dispetto delle intenzioni di tutti quando all’inizio degli anni 2000 si è adottato il sistema 3+2, il numero di immatricolati e iscritti sta diminuendo. Eppure qualcosa di nuovo sta accadendo. Pur considerando veramente deprimenti le percentuali di stranieri iscritti e immatricolati alle nostre università (il totale si aggira intorno ai 72mila studenti su un dato complessivo di quasi 1.710.000 fra immatricolati e iscritti in tutte le università italiane, dati Miur), se andiamo a vedere in che situazione ci trovavamo nel 2004, non possiamo non rilevare un incremento di più del 40% degli iscritti stranieri nelle università italiane, quando il numero di non italiani nelle nostre università arrivava a 47mila.
In questa salita del numero degli stranieri che studiano in Italia il contributo di albanesi, cinesi e iraniani è determinante: ci scelgono studenti provenienti da nazioni non certo rinomate per i loro sistemi universitari. Dato interessante, gli stranieri aumentano in termini assoluti anche a fronte di un calo complessivo della popolazione universitaria, segno che dopo l’avvio dei sistema 3+2, l’introduzione della lingua inglese nei corsi e in alcuni casi la creazione di percorsi ad hoc per gli stranieri sta iniziando a dare qualche risultato.
I frutti sono però ancora troppo striminziti. Paesi come Germania e Inghilterra ci surclassano, ospitando studenti stranieri in misura molto più grande: da loro gli stranieri si contano in centinaia di migliaia.
Per fare crescere questo andamento forse bisogna iniziare a cambiare prospettiva. La richiesta di soldi e riforme da parte degli accademici dovrebbe essere accompagnata dalla curiosità di chiedersi cosa vogliono gli studenti, cosa cercano, cosa desiderano per compiere un percorso di formazione che li porti al mondo adulto e lavorativo in modo soddisfacente. Stando a contatto con i ragazzi, si capisce che il desiderio che li muove nel fare l’università è la possibilità di avere prospettive, dentro un cammino accademico che li avvicini al mondo lavorativo o della ricerca in modo sempre meno cattedratico.
Probabilmente per i paesi che non hanno grandi tradizioni accademiche da offrire ai loro giovani, la nostra università e il nostro Paese sono visti come approdi buoni e stimolanti. Ma questo non ci consola: un indicatore del guadagno di attrattività del nostro sistema accademico sarebbe sicuramente il numero di studenti americani, anglosassoni, tedeschi, francesi che decidessero di venire in Italia a studiare. Per ora i numeri sono bassi, ma c’è un dato che deve fare riflettere, relativamente agli studenti statunitensi. Gli iscritti americani a percorsi accademici italiani sono molto pochi (circa 1000 in tutta Italia), eppure l’amore degli americani per l’Italia porta ogni anno qui da noi circa 30mila studenti per periodi da 6 mesi a un anno, tramite programmi di realtà accademiche Usa. L’Italia è il secondo paese più scelto fra tutti gli studenti americani che vanno all’estero (il 10% del totale viene da noi, appena sotto il Regno Unito, come mette in luce questo studio), ma allo stesso tempo viene ritenuta un posto interessante dove passare tutt’al più un periodo di studio-formazione e di vacanza e non il posto dove vivere, lavorare o fare ricerca.
La domanda sorge spontanea: che cosa fa il nostro paese per fare in modo che questi studenti che transitano da noi tornino, o pensino di prolungare il loro soggiorno? Che opportunità forniamo, oltre ad accoglierli per qualche mese? Cosa percepiscono dell’università italiana? Le aspettative degli americani sono diversissime da quelle di cinesi, albanesi, iraniani, indiani, turchi e per rispondere a loro bisognerebbe probabilmente stravolgere molto delle nostre università, a partire dal legame fra percorsi accademici, mondo del lavoro e attività di ricerca, pensando come collegati e messi a sistema gli attori che formano, che fanno ricerca e che offrono lavoro.
Se lo scenario italiano diventasse un luogo nel quale si trovano opportunità, immediatamente diventerà attrattivo anche per chi potrebbe godere nel suo paese di un sistema accademico di alto livello. Dal percorso universitario, dunque, si deve poter offrire opportunità di sbocchi significativi e relativamente sicuri e al contempo sfidanti per chi vuole fare ricerca, ma anche inserimenti nel mondo del lavoro corrispondenti al grado di specializzazione e conoscenze acquisite.
In molti paesi del mondo cosiddetto “avanzato” si guarda al sodo, cercando perciò di rendere più attrattivo possibile questo percorso, puntando all’eccellenza e premiando chi sa farsi valere. La strada da percorrere non è molta: è moltissima. Ma le nostre speranze non possono che essere legate a politiche che coraggiosamente cerchino una rivitalizzazione dei percorsi accademici e dei legami fra mondo del lavoro e università. Non solo per gli studenti italiani, ma per chiunque sia in cerca di opportunità nel mercato globale. Rendere attrattivo un sistema accademico significa connetterlo al tessuto produttivo e aprirlo. A tutto il mondo.