Quello dell’integrazione dei bambini stranieri nelle scuole italiane è diventato ormai un problema di grande rilievo che interessa tutte le istituzioni scolastiche. Sono bambini con provenienze molto disparate, arrivano in qualsiasi momento dell’anno scolastico, non conoscono la lingua, spesso vivono con le famiglie in situazione di clandestinità con enorme disagio sociale e non frequentano regolarmente la scuola.
La loro presenza è costantemente in aumento. I documenti del MIUR elaborati dall’osservatorio interculturale constatano che si sta delineando in Italia un modello variegato, policentrico e diffuso, nel quale i poli di attrazione non sono più le grandi città, ma anche le piccole città e i paesi. È la nuova Italia, con la sua scuola multietnica, così come viene attentamente delineata in un articolo comparso sul quotidiano La Stampa di giovedì 25 maggio, dal titolo «Stranieri a numero chiuso». Di fronte a dati così evidenti (nel 2003 gli alunni stranieri erano in numero di 239.808, mentre nel 2007 in numero di 500.924, con una percentuale di 5,6% di alunni stranieri sul totale della popolazione scolastica) nasce una riflessione culturale necessaria a qualificare il processo di integrazione. L’integrazione dei cittadini stranieri, nelle scuole come in qualunque altra comunità, non è un fatto magico: non può essere una parola d’ordine, e neppure il semplice risultato di buone pratiche e di correte procedure. È invece il frutto di un impegno faticoso ed incerto, in cui la posta in gioco non è solo la convivenza di soggetti in precedenza estranei l’uno all’altro, ma la progressiva capacità di intendersi, condividere progetti, coltivare speranze comuni. Richiede tempo dedizione, rinunce, senso del futuro.
Per parlare di integrazione è necessario riconoscimento e rispetto di attitudini personali, di storie e tradizioni. È questo il punto di partenza che investe la responsabilità delle scuole nello svolgimento della loro azione formativa. Si tratta di delineare per questi bambini stranieri un percorso organizzativo, didattico, metodologico e pedagogico finalizzato al recupero psicologico e sociale, oltre che cognitivo e comportamentale, prendendo atto dello stato di precarietà generale in cui si trovano all’inizio del loro percorso; sviluppare azioni volte all’integrazione, diversificate rispetto alla complessità dei bisogni formativi, e attività mirate ora all’inserimento nell’ambiente o alla conoscenza della lingua italiana, ora all’aggregazione delle diversità o alla rappresentazione delle differenze; avere attenzione al compito che la scuola ha rispetto al proprio ruolo sociale; sostenere lo sviluppo di reti di scuole che si scambiano esperienze arricchenti dal punto di vista formativo attingendo a risorse molteplici e differenziate (come ad esempio i corsi di formazione specifici, organizzati dall’associazione Diesse, sulla presenza di alunni stranieri); mettere in atto strategie didattiche per l’azione educativa.
Tutto ciò richiede flessibilità organizzativa della scuola, così come previsto dal Regolamento dell’autonomia del ’99: tempi-scuola in cui si formano gruppi di apprendimento diversificati, dove si svolgono attività didattiche specifiche che nulla tolgono all’insegnamento disciplinare. Questo comporta avere attenzione nella formulazione dell’orario e nella formazione delle classi, distribuendo equamente il numero di alunni stranieri. Ma anche distribuire equamente la presenza di alunni stranieri tra le varie scuole, dalla scuola dell’infanzia agli istituti superiori, presenti su un determinato distretto territoriale. E poi la creazione, all’interno delle scuole, di un team di docenti professionisti nell’affrontare queste problematiche, a cui venga loro riconosciuta economicamente e giuridicamente questa loro “specializzazione”.
Solo se la scuola sarà aiutata ad affrontare questa situazione, potrà raccogliere una sfida così complessa.