Alla domanda: “Chi sono i non-specialisti che per mestiere si occupano di tutto un po’?”, molti di noi risponderebbero: “I giornalisti”, anche senza adottare necessariamente un tono ironico (che infatti non è quello del sottoscritto). Una società democratica ha molto bisogno di scrittori e scriventi generalisti; però se fossero soltanto i giornalisti ad assolvere questo ruolo, la società sarebbe pericolante (come infatti lo è). Il pericolo sono le gabbie ideologiche, a volte poco visibili ma presenti in moltissimi prodotti giornalistici e saggistici. Fra queste sbarre, quel tutto-un-po’ che a prima vista appare felicemente libero, finisce col rivelarsi costretto e ristretto.
Ma esistono dei generalisti ben diversi, generalisti che sembrano destinati a infrangere le sbarre di tutte le gabbie ideologiche, e offrirci un più profondo senso del tutto-un-po’: questi generalisti sono (dovrebbero essere) i poeti. Il tutto-un-po’ (è bene precisarlo) non è il “tutto”: quest’ultima è una categoria astrattamente metafisica e non circumnavigabile; mentre il tutto-un-po’ è un’area tanto pittoresca quanto poco definita: quella delle analogie e delle metafore, dei salti di palo in frasca, delle intuizioni fulminee, delle associazioni di idee. Insomma, il territorio di caccia favorito dai poeti.
E invece, che stanno facendo i poeti oggi in Italia? Per spiegarci in breve, potremmo eseguire una variazione sul titolo di un pamphlet che criticava tutta una situazione di pensiero: quello pubblicato da Immanuel Kant nel 1796, Di un tono da gran signori adottato di recente in filosofia, e riecheggiato poi (1983) da Jacques Derrida: Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia. Ecco, nella situazione italiana si potrebbe creare un nuovo titolo di pamphlet-da-non-scrivere, passando dalla filosofia alla poesia (si tratta comunque di due sorelle), che suonerebbe così: “Di un tono dimesso adottato di recente in poesia”.
Tono che, va detto subito, di per sé è accoglibile, in quanto genera tanta poesia raffinata (della poesia, con rispetto parlando, si può dire quello che una volta si diceva del maiale: da tutto il suo corpo si può estrarre nutrimento). Ciò non toglie che si senta la nostalgia per la poesia visionaria del tardo Novecento, con le sue declinazioni di pensiero (non di mera ideologia) tanto diverse fra loro come quelle di Pier Paolo Pasolini, David Maria Turoldo, Giovanni Testori. Tutti poeti che hanno anche avuto, talvolta, punti di caduta — ma la poesia vive nella concretezza degli sbalzi di pensiero e di linguaggio — e però ci hanno consegnato vaste visioni del mondo.
Il nuovo millennio ha bisogno di una rinnovata poesia della visione, accanto alla poesia della cosiddetta “realtà”, cioè la poesia della semplicità dimessa che dipinge acquerelli smorzati (per non parlare dell’abbastanza noiosa poesia detta “civile”, che oscilla fra l’indignazione moralistica e la polemica partitica). I dizionari di citazioni riportano ancora la frase vergata dal genio di Percy Bysshe Shelley (nel suo grande saggio Una difesa della poesia del 1821) sui poeti come misconosciuti legislatori del mondo; e leggiamo ancora con rispetto la cosiddetta Lettera del Veggente (siamo già nel 1871) di Arthur Rimbaud. Ma poi tanti nostri cantori del dimesso si concedono il lusso di sogghignare sulla posizione di veggente che Gabriele d’Annunzio, vero fondatore della poesia novecentesca, era riuscito a guadagnarsi (come ben sapeva il citato Pasolini, poeta non-dimesso, che sente l’ansia dell’influenza dannunziana anche se la tiene ben nascosta).
Ma ciò che qui è in gioco va ben al di là della storia letteraria, ed evoca una particolare possibilità di “collaborazione” indiretta dei poeti con i giornalisti, i saggisti, i politologi. La visionarietà dei poeti, infatti, può stimolarci a parlare dello stato delle cose oggi in un modo che sfidi con un po’ di coraggio i vari luoghi comuni correnti: può aiutarci per esempio a guardare da una prospettiva nuova il periodo della presidenza Trump (che ha cambiato in modo definitivo la storia politica degli Usa); e può — per portare un altro e più vicino esempio — indirettamente esortarci a cambiare un pochino le abituali omelie sull’Europa, la quale intanto si è frammentata (anzi no: si è articolata) in Europe. La poesia, certo, non può letteralmente prescrivere leggi all’Europa o alle Europe (e ovviamente nemmeno Shelley aveva in mente un’idea così ingenua). Però la poesia oggi potrebbe, nei suoi imprevedibili modi (di fronte ai quali dobbiamo essere sempre pronti a lasciarci sorprendere), contribuire a salvare ciò che resta di quel qualcosa che si potrebbe chiamare lo spirito europeo.