In questi giorni in cui ricorre il 70esimo anniversario della seduta del Gran Consiglio del Fascismo che determinò la fine del Ventennio si sono moltiplicate le ricostruzioni dell’evento, molte delle quali (tv compresa) presentate come clamorose rivelazioni storiche, basate su presunti resoconti di telefonate tra Mussolini e Claretta che saltano fuori da polverosi cassetti, o magari sul testo stenografico della seduta che un nonno armato di discrezione avrebbe lasciato in eredità ad un nipote ciarliero e disponibile a collaborare, dietro lauto compenso, a settant’anni dai fatti, con gli autori del programma televisivo.
La scarsa eco ottenuta da questi presunti “scoop” è la conferma che la storia non si fa con materiali di risulta e, meno che mai, con una fantasia scatenata. Che, nel caso specifico, avrebbe voluto dimostrare come – sotto sotto – Mussolini, il Re e persino Badoglio fossero d’accordo sulla messinscena dell’ordine del giorno Grandi, onde creare le premesse per lo sganciamento dell’Italia dall’alleanza con i tedeschi. Nulla di più fantasioso. Mussolini sapeva che avrebbe dovuto dimettersi e non attendeva altro. Ma mai avrebbe immaginato di venire arrestato dai carabinieri e di finire in prigione.
Veniamo ai fatti e incominciamo proprio dal Gran Consiglio del Fascismo. Voluto da Mussolini alla fine del 1922 quale organismo di consultazione e di orientamento formato dai più prestigiosi esponenti del partito, il Gran Consiglio tenne la sua prima riunione il 12 gennaio 1923 al Grand Hotel di Roma. Lo componevano, su nomina diretta del Duce, personalità come Giuseppe Bottai, Edmondo Rossoni, Alfredo Rocco, Achille Starace, Giacomo Acerbo, Michele Bianchi, Emilio De Bono, Cesare M. De Vecchi, Aldo Finzi e altri “intellettuali di area” e capi militari delle squadre fasciste. Era prevista una riunione mensile, presieduta da Mussolini: una sorta di supergoverno.
Al Gran Consiglio era demandata l’elaborazione delle grandi linee del regime in politica economico-sociale. E in effetti, almeno nei suoi primi anni di attività, il Gran Consiglio varò una serie di riforme economiche, sociali e amministrative alcune delle quali sono tuttora in vigore (per esempio: l’Iri, Istituto per la ricostruzione industriale; i contratti collettivi di lavoro e la Magistratura del lavoro; l’Inps, Istituto nazionale per la previdenza sociale), e molte delle quali restarono in funzione fino alle riforme volute dal centro-sinistra negli anni Settanta (l’Inam, Istituto nazionale assistenza malattia; l’Onmi, Opera nazionale maternità e infanzia).
Con legge 9 dicembre 1928 n. 2693 (legge di riforma dello Statuto), il Gran Consiglio divenne una istituzione dello Stato avente tra l’altro il compito di pronunciarsi sulla politica estera e di presentare al Re la lista dei ministri. Esso fu regolarmente convocato da Mussolini fino all’indomani dello scoppio della seconda guerra mondiale, nell’autunno 1939. Poi venne “messo in naftalina”, e da quel momento Mussolini fece tutto di testa sua: l’entrata in guerra il 10 giugno 1940, l’attacco alla Grecia il 28 ottobre di quell’anno, la dichiarazione di guerra alla Russia il 21 giugno 1941, la dichiarazione di guerra agli Stati Uniti il 7 dicembre sempre del ’41.
Per essere infine riesumato dopo lo sbarco alleato in Sicilia e il bombardamento di Roma del 13 luglio 1943. A chiederne la convocazione fu Roberto Farinacci, il massimo rappresentante dell’intransigenza fascista, ricevuto da Mussolini il 16 luglio (sei giorni dopo lo sbarco alleato in Sicilia), assieme ad altri 11 gerarchi del partito incaricati di tenere una serie di “conferenze” nelle varie città italiane. Farinacci motivò la sua richiesta con la necessità “di dar modo a tutti di far sentire la propria voce”. Gli altri si associarono alla richiesta. Il Duce si dichiarò d’accordo.
Nell’aula di Palazzo Venezia si ritrovarono i due superstiti quadrumviri della marcia su Roma, De Bono e De Vecchi, i presidenti della Camera e del Senato Dino Grandi e Giacomo Suardo, i ministri in carica, il comandante della Milizia Enzo Galbiati, il presidente del tribunale speciale Antonino Tringali-Casanova, il presidente dell’Accademia d’Italia Luigi Federzoni, i presidenti delle Confederazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro, infine i “membri speciali triennali” (nel ’43, Ciano, Alfieri, Bottai, Buffarini-Guidi, De Stefani, Farinacci, Marinelli, Rossoni). Segretario di quella seduta del Gran Consiglio, anch’egli designato dal Duce, il segretario del partito Carlo Scorza.
La 187ma seduta del Gran Consiglio ebbe inizio alle 17,15 di sabato 24 luglio 1943. Mussolini conosceva perfettamente l’ordine del giorno di sfiducia nei suoi confronti che Dino Grandi aveva preparato. Glielo aveva letto Scorza (al quale Grandi ne aveva dato una copia) mercoledì 21 luglio. Conosceva anche i nomi dei firmatari, che erano 19, la stragrande maggioranza dei membri del Gran Consiglio.
È un fatto che l’odg Grandi non si prestava ad equivoci, specialmente nella sua parte conclusiva, laddove recitava: “…invita il Capo del Governo a pregare la Maestà del Re affinché egli voglia, per l’onore e la salvezza della Patria, assumere, con l’effettivo comando delle Forze Armate, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a lui attribuiscono”.
Nessuno storico è mai riuscito a spiegare la strana inerzia di Mussolini (era fiaccato da un attacco d’ulcera? il voto contrario gli faceva comodo per preparare un onorevole disimpegno, per dimostrare a Hitler che neanche i fascisti ormai volevano più la guerra?) di fronte alla violenta filippica del presidente della Camera. Che concluse il suo intervento con queste parole: “La dittatura ha ucciso la rivoluzione, ha ucciso il fascismo, ha creato una frattura insanabile tra il fascismo e il popolo italiano. Stràppati, o Duce, la greca di maresciallo, e ritorna quello che eri: il capo di un partito politico e il primo ministro del Re!“.
Tutti presero la parola, tutti parlarono a lungo, chi con passione, chi con paura. Dopo nove ore di tensione, alle due di notte del 25 luglio, Mussolini mise ai voti l’odg Grandi. Diciannove i sì: Grandi, Ciano, Bottai, Federzoni, De Bono, De Vecchi, De Marsico, Acerbo, Pareschi, Cianetti, Balella, Gottardi, Bignardi, De Stefani, Rossoni, Marinelli, Alfieri, Albini, Bastianini (il solo Cianetti si pentirà poche ore dopo, inviando una lettera di scuse al Duce). Sette i no: Biggini, Scorza, Polverelli, Tringali-Casanova, Frattari, Buffarini, Galbiati. Due gli astenuti: Farinacci e Suardo. Dichiarando chiusa la seduta, Mussolini disse: “Voi avete provocato la crisi del regime“. Era una constatazione, un dato di fatto, non un’accusa di tradimento.
La storia ci dice che Mussolini fu arrestato dai carabinieri, per ordine del Re, il pomeriggio del 26 luglio, portato all’isola di Ponza, poi alla Maddalena e infine sul Gran Sasso, qui “liberato” (tra virgolette) dai tedeschi il 12 settembre e, a partire dal 15, per ordine di Hitler, volente o nolente posto a capo della Repubblica Sociale Italiana che sarà la tomba definitiva del fascismo e del suo creatore.
Quanto ai membri del Gran Consiglio che votarono l’odg Grandi, quelli sui quali i fascisti intransigenti poterono mettere le mani (Ciano, genero del Duce, Marinelli, Gottardi, De Vecchi e Pareschi) furono processati a Verona, condannati a morte e fucilati l’11 gennaio 1944. Ciò non sarebbe mai avvenuto se Mussolini – come sostengono le presunte “rivelazioni” ultrasettantennali – avesse dato il suo assenso alla manovra.
E qui, una parentesi importante anche se poco conosciuta. Nel 1982 intervistai in Baviera il Generale Wolff, ch’era stato il capo delle SS in Italia. Mi rivelò che, la sera delle condanne a morte, ricevette una telefonata da Mussolini che voleva conoscere la sua opinione su come l’avrebbe presa, Hitler, se lui avesse deciso di graziare i condannati a morte (tra i quali, come abbiamo visto, il marito di sua figlia), tramutando la pena capitale in lavori forzati a vita. “Gli risposi che il Fuehrer”, mi disse Wolff, “l’avrebbe presa molto, ma molto male, e che c’era da aspettarsi una durissima reazione”. Ecco dunque come e perché Mussolini dovette rassegnarsi a passare alla storia come colui che aveva mandato a morte il padre dei suoi nipotini.
Quanto a Enzo Galbiati (1897-1982), ch’era stato un valoroso Ardito nella grande guerra e fascista della prima ora, come comandante della Mvsn (Milizia volontaria per la sicurezza nazionale) avrebbe potuto troncare sul nascere lo schieramento contrario a Mussolini ordinando l’arresto dei suoi componenti. Ma non prese alcuna iniziativa. E non la prese perché non ebbe, al riguardo, alcuna sollecitazione dal Duce. Tornò a casa, dove fu bloccato agli arresti domiciliari, per ordine del nuovo capo del governo Pietro Badoglio, dalla sera del 25 luglio fino al 4 agosto, e poi tradotto al Forte Boccea.
Liberato il 10 settembre, dopo la presa di Roma ad opera dei tedeschi, si recò a rapporto da Mussolini alla Rocca delle Caminate subito dopo la costituzione della Rsi per consegnargli un rapporto su quanto aveva fatto subito dopo la seduta del Gran Consiglio. Nel rapporto scrisse di non avere preso alcuna iniziativa, quella notte, perché – testualmente − “non volli dare inizio ad una guerra civile“.
Era evidente, infatti, che Carabinieri e Forze Armate avrebbero ubbidito al Re e non a lui. Non risulta che Mussolini abbia avuto alcunché da rimproverargli: condivideva il suo punto di vista. Galbiati non volle cariche nella Repubblica di Salò. Si ritirò a vivere a Bordighera, rifiutò ogni proposta di scrivere libri o memoriali e morì all’età di 85 anni.