Guardando allo spettacolo offerto nella recente campagna elettorale da parte delle opposte fazioni, per lo meno quelle animate da maggiore passione, non si può non notare che l’animosità feroce è ciò che da sempre contraddistingue l’impegno politico degli italiani, dal tempo dei Comuni e delle Signorie ad oggi. Anzi, come ho avuto già modo di scrivere tempo fa, si direbbe che gli italiani abbiano la guerra civile nel proprio dna. Molto più, ad esempio, dei britannici, che dopo Oliver Cromwell si sono ben guardati dal combattersi tra loro, riservando le proprie attitudini belliche agli altri popoli, a cominciare dai vicini scozzesi o irlandesi.
In Italia invece c’è profondamente impresso nel carattere il gusto per la divisione e la conflittualità intestine.
Queste considerazioni mi sono state ispirate anche da uno straordinario romanzo: Bandiere rosse, aquile nere (Piemme, 2016) di Guido Cervo. Da anni Cervo, docente bergamasco formatosi nella lettura dei classici e in particolare dei russi, ci regala da grande appassionato di storia qual è opere appassionanti. Si è cimentato dapprima con l’antica Roma, con gli scenari barbarici e decadenti del Tardo Antico e dell’alba del Medioevo. Poi, più recentemente, ha pubblicato un romanzo ambientato nella prima guerra mondiale. Sul piano stilistico nelle opere di Cervo si è da sempre avvertita l’influenza di maestri del ‘900 come Graham Greene, Ernst Jünger, Carlo Alianello. Con questa sua ultima opera invece Cervo richiama alla memoria del lettore gli scenari epici del grande Eugenio Corti.
Il romanzo è ambientato in uno dei più drammatici momenti della storia italiana, dal 1942 al 1945. Quelle che vengono raccontate sono le vicende tragiche di un Paese diviso, lacerato, provato da una guerra inutile e dannosa, e poi straziato dalla guerra civile. Vicende osservate attraverso una famiglia milanese, i Martinelli, i cui membri vengono divisi e allontanati dalla guerra ma anche dalle contrapposte ideologie. Le bandiere rosse e le aquile nere del titolo sono quelle dei partigiani che sognano di instaurare una repubblica socialista e dei fascisti irriducibili che combattono non tanto per un Duce che — nelle pagine del romanzo — è una presenza opaca e lontanissima, ma per l’onore dell’Italia, un paese soggetto a privazioni, lutti e umiliazioni di ogni genere. Il vero protagonista, in questo romanzo, è — come nelle opere di Corti — il popolo, quello vero, quello concreto, che soffre e si arrabatta per sopravvivere materialmente e moralmente ai disastri provocati dai cosiddetti “grandi della storia”.
Il libro di Cervo ci mostra quello che accade quando la Misericordia viene a mancare. Quando si tratta della guerra civile in Italia 1943-1945 è immediato il rischio di incorrere in una scelta fatale, come ha rischiato l’astuto Ulisse tra i due mostri Scilla e Cariddi: la “salvezza” non sta nello scegliere l’uno o l’altro, ma nel passarvi in mezzo.
Il che non significa affatto dare un colpo al cerchio ed uno alla botte, stare nell’irenismo, ma, semplicemente, raccontare la verità possibile, che in campo storico non è mai l’equivalente delle verità di natura o di tipo matematico, ma è sempre un’approssimazione alle intenzioni degli attori dei fatti storici, intenzioni note solo a Dio.
Così Guido Cervo svolge magistralmente la sua trama, racconta l’Italia della guerra civile, o per meglio dire, delle tante guerre civili, quelle quasi mai raccontate, come ad esempio il conflitto durissimo, tutto interno alla sinistra, tra il Pci di Togliatti e coloro che erano portatori di diverse visioni del socialismo, come i cosiddetti “internazionalisti”, i bordighiani.
Vicende di fantasia vissute in un quadro corale, in un contesto di eventi storici reali, ricostruiti sul fondamento di una sicura documentazione, con un tempo narrativo quasi cinematografico e una particolare attenzione allo scenario naturale, culturale e sociale in cui è ambientata la narrazione. Troviamo così accanto ai personaggi immaginari ma verosimili creati dall’autore anche figure storiche, come l’ingegner Carlo Bianchi, il giovane apostolo della carità milanese, fondatore del centro di assistenza per diseredati di Milano “La Carità dell’Arcivescovo”, che morì fucilato dai nazisti nel campo di concentramento di Fossoli.
Un romanzo, insomma, che aiuta a guardare con occhi diversi non solo il passato, ma anche il presente.