E’ una brutta Italia, un’Italiaccia quella che racconta Giampaolo Pansa nel suo ultimo libro. Il giornalista-scrittore che, nella sua vita professionale, ha dedicato fatica di ricerca e di scrittura alla revisione, o meglio alla riscrittura critica, della vulgata sulla resistenza e sulla guerra civile italiana, ritorna a descrivere l’ambiente, l’atmosfera del dopoguerra italiano, quello in cui è maturato il tragico schema del “Sangue dei vinti”, la prima “sassata” nello stagnante conformismo storico italiano.
Lo sfondo di questo libro, che sta tra il romanzo e i ricordi storici dettagliati, è la zona del Monferrato, Casale (che in questo libro non viene mai nominata) dove Pansa ha coltivato e maturato le sue passioni giornalistiche, storiche e politiche. Ripercorrendo questo “suo” passato, sembra che Pansa arrivi a una conclusione amara: l’Italiaccia di quel tempo, del periodo che dal 1943 lambisce l’inizio del 1949, sembra la metafora di un’Italiaccia che stiamo vivendo, in un contesto differente, anche in questi anni.
Il titolo del libro è proprio “L’Italiaccia senza pace”, edito da Rizzoli. E nella raccolta delle tante storie raccontate da Pansa e inserite nel testo dell’Italiaccia, il dopoguerra ha effettivamente un suo peso, tanto da giustificare il sottotitolo: “Misteri, amori e delitti del dopoguerra”.
Ma il filo conduttore della vicenda di quegli anni riproduce una società profondamente disgregata, lacerata, dove i tratti umani sembrano quasi immodificabili e si tramandano nel tempo con una cadenza e una ripetitività che fanno impressione.
Il tradimento e l’opportunismo, la miseria di un guadagno immediato che può condurre alla morte, all’eliminazione di un avversario, o semplicemente dell’altro, sono la base di un modo di vivere che le scelte politiche rivestono quasi per comodo, raramente per passione sincera.
Anzi, leggendo Pansa, pare che lo slancio ideale sincero, vissuto intensamente, quello che spesso anima tanti protagonisti, sia il più punito dalla cronaca, il più perdente nell’affresco che Pansa ricostruisce in questo ultimo suo libro come in tutti i precedenti che ha scritto su questo argomento.
Insomma, l’Italia che Pansa dipinge è quella del grande opportunismo cinico, quella dei tanti delitti rimasti senza colpevoli, E’ l’Italia che usa il pugno di ferro sui “vinti”, sui fascisti sconfitti., E in tutto questo c’è l’immagine di un fanatismo barbarico, con i reduci di Salò, a loro volta, che si vendicano.
Che quadro può uscire da questa descrizione? Quella di un Paese con partiti divisi dall’odio, con una serie di misteri ed enigmi che diventano autentici incubi. Il dopoguerra è stato tutto questo. In sintesi brutale, una sorta di inferno durato tre anni, dopo l’ultimo tratto di guerra civile, che arriva sino alle famose elezioni del 18 aprile del 1948 quando viene sconfitto il Fronte popolare e poi quando piomba sul Paese la promessa insurrezionale per l’attentato a Palmiro Togliatti. Cosa che poi, fortunatamente, non si verificò, anche per gli equilibri internazionali che erano stati fissati a Yalta e che erano ben presenti sia a Stalin che a Togliatti e al Pci.
Pansa sembra avvertire tutti: ho vissuto da ragazzino curioso quegli anni e sono maturato in quel clima. Ma Pansa sembra proseguire in un suo ragionamento, mettendo in fila le sue sensazioni e la sue percezioni di osservatore politico e di ricercatore storico.
Sembra dire: questa Italia del 2015 è ancora figlia di quel dopoguerra, dei vizi e delle faziosità che lo inquinavano.
Per alcuni aspetti Pansa è quasi più pessimista guardando l’Italia di oggi. Gli italiani dell’inizio del “terzo millennio” sono più in frantumi che gli italiani di quel tempo passato. Oggi i partiti politici soffrono di un discredito che nel dopoguerra affiorava già, ma non paralizzava il Paese.
E in tutto questo manca pure un Alcide De Gasperi, manca una classe dirigente degna di questo nome.