È in uscita da Marietti 1820 Salvare le apparenze, il capolavoro di Owen Barfield, il filosofo degli Inklings. Barfield (1898-1997) è un autore quasi sconosciuto in Italia eppure è a lui che si deve l’idea linguistica che ha ispirato i famosi romanzi di Lewis e di Tolkien. Lewis considerava Barfield il suo “maestro non ufficiale” e Tolkien scrisse che la teoria dell’unità semantica di Barfield gli aveva fatto “mutare radicalmente l’intera concezione” del linguaggio; da questo cambiamento nascerà la saga della Terra di Mezzo. Ma chi era Barfield e qual è questa teoria del linguaggio?
Barfield era un compagno di studi di Lewis a Oxford e l’amicizia con l’autore delle Cronache di Narnia (ai figli di Barfield sono dedicati i primi due volumi) lo condusse, all’inizio degli anni ’30, a essere uno dei principali protagonisti del circolo che si riuniva all’Eagle and Child Pub per leggere e ascoltare gli scritti inediti dei suoi partecipanti. È una delle tante affascinanti storie della letteratura: un gruppo di amici riuniti dalla passione per le letture dei miti, antichi o nordici che fossero, per il rischio dello scrivere in prima persona, per le avventure dello spirito, spesso legate al Cristianesimo.
A differenza di Tolkien e Lewis, Barfield non intraprese la difficile carriera accademica la cui incertezza (già allora!) rendeva problematico il mantenimento della famiglia. Fece per trent’anni l’avvocato continuando però (sic!) a scrivere e a pensare sulla letteratura. Alcuni dei suoi libri, tra cui Salvare le apparenze, ebbero nel frattempo un certo successo negli Stati Uniti e, una volta in pensione, Barfield si dedicò all’insegnamento nelle università americane dove veniva chiamato per corsi e conferenze. Intorno a lui crebbe una schiera, piccola ma agguerrita, di seguaci, che ripropongono oggi il suo pensiero, osteggiato o ignorato dal mainstream della cultura accademica.
Che cosa sostiene questa teoria “alternativa”? Innanzi tutto, una forma particolare di realismo. Essa sostiene che l’unico modo per difendere allo stesso tempo ciò che la scienza dice e il senso comune percepisce è quello di accettare che la nostra conoscenza derivi da una realtà che è descritta dalla fisica ma che è percepita attraverso rappresentazioni, cioè immagini mentali e linguistiche, che formano la nostra coscienza e che sono indisgiungibili da essa.
L’arcobaleno è fatto di goccioline di acqua, che la fisica spiega, ma ciò che noi vediamo è una rappresentazione che è reale e oggettiva, anche se dipende dall’interazione con il nostro occhio. Allo stesso modo, l’intera realtà è percepita come rappresentazione attraverso la coscienza e il linguaggio è segno, cioè rappresentazione, della sua origine misteriosa. Quando noi vediamo qualcosa, la nostra coscienza vi è sempre implicata ed è per questo che epoche diverse hanno immagini differenti delle stesse cose. Non erano stupidi gli uomini che pensavano che il sangue portasse lo “spirito” dell’uomo; avevano un’altra immagine e altre parole, cioè un’altra coscienza.
La realtà, quindi, è sempre “partecipata” dalla nostra coscienza, dalle sue immagini, dal suo linguaggio. Ed ecco la teoria che tanto impressionò il giovane Tolkien: il nostro linguaggio, mentale o materiale, è una cosa sola con la realtà di cui partecipa. L’inizio del linguaggio (quello degli elfi, per intenderci con gli amanti di Tolkien) è nel mondo mitico in cui realtà, linguaggio e significato sono una cosa sola. Le parole portano in sé il senso delle cose e pronunciarle, come dicevano i filosofi medievali, “fa accadere le cose”. In alcune delle pagine più belle Barfield racconta come questa unità pervadesse ancora la percezione antica e medievale della realtà prima di perdersi definitivamente negli ultimi quattrocento anni.
L’affascinante storia della coscienza umana di Salvare le apparenze, infatti, mostra uno svuotamento delle parole che diventano progressivamente “puri nomi”, veri e propri “idoli” che non ci fanno più partecipare dei significati. Nella mentalità occidentale il linguaggio è considerato sensato quando è “scientifico”, ossia quando si riferisce solo a quantità, mentre il resto del significato non ha più a che vedere con le parole. Il nominalismo ha vinto: la realtà non c’entra più con le parole (o le rappresentazioni). Per questo, secondo Barfield, siamo nell’epoca dell’idolatria: veneriamo parole senza significato e significati creduti sentimentalmente o superstiziosamente, perché creduti senza parole (logos).
Ma l’abisso più profondo è anche il punto di rovesciamento della situazione. Ora che le parole sono svuotate di ogni partecipazione alla realtà, al significato, dalla coscienza stessa può nascere una nuova possibilità. Paradossalmente, lo svuotamento del significato della modernità ci permette di far rinascere tutto da quella memoria che non si sarebbe mai messa in moto se l’unità originaria non si fosse rotta. Felix eidolon, benedetto idolo, è il motto dell’ultima parte, dove il lettore troverà una teologia del ritorno al significato.
Salvare le apparenze presenta così una proposta problematica della coscienza e del linguaggio. La nettezza della posizione e il suo modo troppo deciso e chiaro per i tipici gusti accademici, l’ha spesso allontanata dal circolo “buono” della cultura, ma è una di quelle su cui vale la pena riflettere e correre il rischio di dover “mutare radicalmente l’intera nostra concezione”.