In economia il presente è il risultato delle scelte che sono state effettuate nel passato ed è contemporaneamente il momento in cui, con ragionata riflessione, ci si appresta a dipanare le scelte che dovranno prendersi per postulare obiettivi futuri reputati utili.
Ho inteso proporre inizialmente questa affermazione perché mi sembra che il nostro tempo sia orfano di questo presupposto che deve, invece, soprassedere ed accompagnare i giudizi e le scelte che vengono proposti sia per “perimetrare” l’attuale situazione di crisi sia per “indagare” i possibili scenari futuri e ricercarne le più opportune soluzioni.
La crisi economica mondiale, che nel nostro Paese si è aggravata in recessione, non è figlia dell’accidente, ma è il risultato disastroso di precedenti scelte o di scelte non fatte nel momento giusto. La crisi è stata generata da precisi presupposti “ideologici” che hanno attraversato gli ultimi trent’anni come una “cultura” che ha posto gli interessi del capitale finanziario (e solo di questa forma di capitale) come lo “strumento” che avrebbe realmente liberato i mercati. Una “cultura” ove, essenzialmente, la moneta non era più lo strumento misuratore (il numerario) degli scambi, ma si era trasformata essa stessa in un “bene/merce” e di conseguenza si era “opportunamente” costruita un proprio mercato, in cui tutto essa domina e dove il suo ruolo principale non è più quello di sostenere, finanziandola, l’economia reale ma, in maniera prevalente, è quello di accumulare nuova ricchezza anch’essa immediatamente monetaria.
In buona sostanza il “bene” moneta, nel suo mercato virtuale, deve generare “profitto” tramite l’ottenimento di livelli incrementativi di ” nuova” moneta e nel far questo non deve “sporcarsi”, o deve farlo il meno possibile, con i mercati dei beni e dei servizi che le imprese mettono in essere. In questo mercato virtuale, la moneta deve essere “distaccata” dai bisogni che la realtà evidenzia, il suo operare non può e non deve interessarsi del bene comune, essa disconosce qualsiasi forma di solidarietà, anzi nei presupposti della sua “filosofia” questo principio di civile convivenza è concepito come un impedimento alla sua “libertà” di agire. Da tutto questo ci sembra che se ne possa derivare una negativa posizione etica, quella per cui il denaro ha colonizzato la mente e il cuore di molti uomini d’affari e, direttamente o indirettamente, ha condizionato e sacrificato i presupposti del libero mercato e delle sue postulazioni ai suoi propri obiettivi.
Siamo così sempre più passati, spesso senza averne presente tutte le conseguenze, da un’economia del libero mercato ad un’economia capitalista nel senso più pieno e duro del termine; siamo stati “immersi” in un’economia meramente finanziaria ove la moneta è prevalentemente destinata a produrre e ad accumulare moneta. Siamo passati da un economia (reale) di mercato ove lo scambio e la reciprocità erano protesi a perseguire adeguati livelli di equità dei rapporti ad un economia virtuale (ma sotto il profilo etico possiamo ancora chiamarla economia?) ove il “gioco” e la “scommessa” di natura meramente finanziaria costituiscono la motivazione essenziale che spinge l’operatore ad essere pregiudizialmente “contro” l’altro o ad “ammorbidire” il proprio intervento solo se ha ragionevoli aspettative di massimo tornaconto o di minor perdita.
È questa un’economia ove si sono maggiormente concretizzati due presupposti etici: “gli affari sono affari” (e, quindi, nel mondo degli affari non si deve guardare in faccia nessuno) e “la moneta non ha odore” (e, quindi la si ricerca e la si recepisce da qualunque fonte provenga e si opera con essa e attraverso essa per raggiungere qualsiasi obiettivo purché sia giustificato dal mero tornaconto). Tutto questo perché il principale, se non l’unico e reale, obiettivo postulato non è più identificato nel perseguimento della ricchezza sociale e del bene comune, ma l’obiettivo da postulare è quello che la moneta produca altra moneta e arricchisca solamente il soggetto che ha messo in essere l’operazione la cui natura è sostanzialmente finanziaria. In questa economia le scelte economiche non hanno più davanti l’uomo della quotidianità, ma si imperniano su interessi ove il denaro e la sua accumulazione sono all’inizio e al termine di ciascun processo economico, e dove la speculazione, di fatto, è la vera motivazione delle operazioni stesse.
Nella misura in cui l’economia, in maniera sempre più esclusiva, viene sottomessa alla legge del “massimo tornaconto” (che, spesso, è anche ricercato nel più breve tempo possibile), di fatto, è trasformata da un insieme di azioni sociali operate nel rispetto delle regole del libero mercato e rivolte ad un’equa reciprocità e (direttamente o indirettamente) al bene comune in un insieme di azioni volte solo a soddisfare l’interesse individuale di chi le ha messe in essere in un mercato che poco o affatto sopporta le regole. Il mercato, sostanzialmente, è divenuto una sorta di sinopia di ciò che dovrebbe essere il libero mercato e dove, nel rispetto spesso solo formale delle regole, si “pennellano” operazioni che poco o nulla hanno in comune con l’equità, la reciprocità, la solidarietà e, quindi, con il bene comune.
Perseguendo con questa logica individual-tornacontista si è distrutto il libero mercato (quello dello scambio in termini di reciproca equità) e si è data sempre più forma al peggiore capitalismo della storia, quello che ha immaginato e messo in essere una diversa funzione della moneta e, quindi, della relativa operatività finanziaria. In questa maniera, si sono spalancate le porte alla speculazione e alle scommesse finanziarie e si sono, contemporaneamente, scavalcate, a piè pari, le regole fondamentali dell’economia reale (quella che produce beni e genera lavoro) e se ne è costruita una a prevalente natura virtuale. Si è, contemporaneamente, generata un’economia che ha sollecitato e sempre più favorito il consumo a credito e, quindi, ha sempre più agevolato l’indebitamento dei cittadini e degli Stati, e in quest’ultimo caso sino a giungere a disinteressarsi anche dei disavanzi delle partite correnti dei bilanci nazionali. In più semplici parole, si è messa in essere un’economia che ha inventato e proposto la postulazione della ricchezza meramente monetaria, ma vuota di ricchezza materiale, ma piena di illusorie promesse.
Si è messa in essere un’economia dove la persona non è più al centro delle motivazioni e dove il lavoro non è più il motore della creazione delle utilità e del benessere, ma è considerato solo uno come fra i vari fattori produttivi necessari per l’attività produttiva ovvero: merce “confusa” con le altre merci.
Si è così agevolata la costruzione dell’economia del “capitalismo-gioco”, l’economia “dei lupi e delle volpi”, delle “spallate furbe”, delle ricchezze improvvise, del liberismo selvaggio e senza regole che ha come riferimento “etico” il massimo profitto possibile “tutto e subito”. È questa l’economia delle scommesse sui derivati che sganciandosi, quasi totalmente, dalla realtà quotidiana e dalle necessità che questa esprime, si è trasformata in un’economia meramente virtuale che ha avuto la forza di far passare come “novità” vecchi espedienti per far soldi “senza sudore”, ma soprattutto senza alcuna remora morale.
In questa maniera si sono strozzate e distrutte molte imprese dei mercati reali, quelle ove il capitale e il lavoro producono insieme i beni e i servizi necessari alla quotidianità delle popolazioni e, contemporaneamente, si sono generati livelli di disoccupazione sempre più alti, si è accentuata e moltiplicata la povertà, ma soprattutto si sono “educate”, convincendole, intere generazioni che questo è l’unico modo di fare economia perché il vero potere è nella finanza e nella sua gestione capitalistica.
(1− continua)