Dall’esperienza d’insegnamento nei corsi universitari, i docenti ricavano generalmente l’impressione che troppi studenti non abbiano interesse alla conoscenza, ma si adattino a ripetere banalità sconnesse, corredate di esempi mal compresi. Sembra che nella scuola non abbiano appreso i “fondamentali” dello studio. Arrivano all’università e non riescono ad affrontare un manuale.
Messi di fronte a un tomo di quattrocento pagine si allarmano per la quantità “di pagine da leggere” – da “leggere”!, non da sviscerare, analizzare, ricostruire, rielaborare. Rinunciano così ad affrontare i libri e si affidano a schemini, spesso imprecisi e irrilevanti ai fini dell’apprendimento. Inoltre, la loro memoria non è allenata (“ché non fa scienza, sanza lo ritenere, avere inteso”) e i contenutini degli schemini svaniscono, una volta superato l’esame – che pur superano, avendo gli esaminatori progressivamente abbassato la soglia minima della sufficienza.
Le cose sono cambiate, rispetto agli ultimi decenni del “secolo breve”. Il “mondo di ieri” era tramontato insieme al principio di autorità e gli insegnanti, gli uni smarriti ma volenterosi, gli altri cinici e indifferenti, si erano adeguati. Ancora negli anni Ottanta del Novecento, molti studenti facevano indigestione di riassunti, di “bignami”, di “sintesi”. Si aggiungeva un po’ di sudore mentale, si mescolava bene e si mandava giù. A più di un insegnante bastava quella minestrina memorizzata la notte precedente: vi era un tacito accordo fra le due parti coinvolte nella comunicazione didattica.
Il tramonto del principio di autorità ha prodotto in seguito un altro effetto, questo sì deleterio: a scuola hanno dichiarato guerra a ogni contenuto tramandato, trasmesso, già elaborato da una tradizione di studio, di ricerca, di riflessione sull’esperienza umana. Si è stabilito che le pietanze tradizionali vanno decostruite. E se nella nouvelle cuisine si esalta la creatività del cuoco, nella nouvelle vague scolastica il cuoco è “il discente”, colui che prende parte attiva e personale alla costruzione del proprio sapere.
Ma se il cuoco eccede in creatività e propone schifezze, chiuderà il ristorante. Se invece il discente produce sfide al buon senso, qualcuno dice che egli ha “imparato a imparare” e che il buon senso in fin dei conti è una categoria autoritaria, da eliminare. Così sragionando, si è abbattuto un mälström su tutte le discipline e si è negata la fiducia nella validità del sapere già costituito. Non si è dichiarata la falsità dei contenuti, o l’inadeguatezza con cui li si elabora nella comunicazione didattica: si tratterebbe, se così fosse, di una seria verifica empirica intersoggettiva. Si è invece affermato che lo stesso giudizio di falsità è una categoria già fatta, basata su una tradizione “occidentale”, contro la quale bisogna lottare.
Viene così abolita la differenza tra un’ipotesi e un’opinione sulla realtà. La prima è una conoscenza che esige una verifica costante con l’esperienza da cui promana e a cui rimanda. Costruire ipotesi da verificare è un’attività che ogni giorno compiamo, quando dobbiamo risolvere piccoli e grandi problemi. Per fare ipotesi, servono comunque i dati empirici, che possiamo ricavare in due modi: o nell’esperienza diretta (nella pratica quotidiana) o affidandoci all’autorità di chi ha la nostra fiducia – in altre parole: dando credito a una tradizione. Certo, bisogna sottoporre a verifica anche la tradizione, riconsiderandone contenuti e metodi. Ma si deve pur partire da un dato empirico accettato come valido.
Diversa dall’ipotesi è l’opinione, cioè l’impressione, che un individuo si costruisce senza ragionare, ma lasciandosi guidare e dominare dal “si dice”, dagli stereotipi diffusi dal potere (di qualsiasi tipo). Chi “si fa un’idea” di qualcosa, non vede la realtà. Il suo sguardo resta limitato alle apparenze: vede il fenomeno, ma non dispone dello strumento per cogliere, nel fenomeno, la presenza di caratteristiche comuni ad altri fenomeni.
Sembra che molti studenti, giunti nell’università, siano incapaci di fare astrazione. Non riescono, cioè, a individuare i processi o le proprietà comuni a una serie di fenomeni. Sanno magari enunciare un principio generale, ma non sono capaci di applicarlo a un caso concreto. Oppure, sanno descrivere un caso concreto, ma non ne capiscono il senso, cioè non sono capaci di individuarvi la presenza di un principio generale. In altre parole: non pochi studenti fanno gran fatica a ragionare, cioè a “fare i conti” con la realtà, a risolvere una situazione problematica. Vi è quasi l’impressione che, nell’esperienza della scuola, non siano stati allenati a guardare la realtà, a osservare i dati senza pregiudizi; gran parte di loro è invece assuefatta ai bla bla e non riesce a distinguere un’ipotesi da un’opinione, una teoria da un’ideologia.
Forse la responsabilità non è soltanto della scuola, ma di tutta una società, Università compresa. Le forme di conoscenza tradizionali sono saltate, e non solo nella scuola. Siamo in presenza di un grande mutamento antropologico-culturale: la capacità di fare astrazione, di individuare le categorie che sottendono ai fenomeni dell’esperienza, ha ceduto il passo all’immagine, alla raffigurazione del fenomeno singolo, effimero. Non si vede più l’unità che permane nella variabilità delle sue manifestazioni – in altre parole: non si è più capaci a “fare collegamenti” tra un oggetto e un altro, tra un evento e un altro. Non si riesce perché qualcuno ha detto che non ci sono ragioni che reggono la realtà.
Davvero è necessario “allargare il concetto dominante di ragione”, come esorta Benedetto XVI.