La realtà è lì da guardare: l’autonomia universitaria, istituita con la Legge n. 168 del 9 maggio 1989, si è trasformata nel corso dei decenni in autonomia corporativa irresponsabile, fuori controllo, innanzitutto sul piano finanziario. Le manifestazioni della crescita tumorale del sistema universitario sono ben note: dalla proliferazione delle sedi a quella delle facoltà, dei corsi, più che raddoppiati dal 2001. Offerta formativa fasulla, ma costosa! Così come sono noti i fenomeni più clamorosi di “selezione avversa” – così viene definita in gergo sociologico la selezione intenzionale dei peggiori – nonché parentale di ricercatori e docenti. Il tasso di successo universitario è bassissimo: si laurea il 33 percento degli iscritti, mediamente a 27 anni. Se l’università è al servizio delle giovani generazioni, il minimo che si può constatare è che si tratta di cattiva qualità in moltissimi casi.
A questa situazione drammatica la cosiddetta “riforma Gelmini”, approvata martedì 30 novembre alla Camera e, ora, in viaggio verso il Senato, ha incominciato a porre uno stop. Il provvedimento è passato attraverso mediazioni, filtri, compromessi, avanzate e arretramenti; in questi ultimi due decenni molti buoi sono già scappati dalla stalla; ma, è certo, il provvedimento chiude molte porte e apre la possibilità di una ripartenza virtuosa. Per la quale non basterà la sola legge, beninteso. La storia delle “riforme” è lastricata di ottime intenzioni, scritte nero su bianco nella Gazzetta ufficiale…
Se le cose stanno così, perché centinaia di migliaia di studenti delle università e delle scuole medie superiori sono scesi in piazza, perché hanno tentato di entrare nelle sedi del Parlamento, perché alcune decine sono salite sui tetti, tutti contro la “riforma Gelmini”? Le risposte a questa domanda sono state in questi giorni molteplici. Berlusconi ha dichiarato che gli studenti veri sono a casa a studiare, in piazza c’è una minoranza chiassosa e fannullona. Altri hanno segnalato che gli studenti in piazza sono in realtà strumentalizzati da forze esterne; insomma, non sanno bene che fanno e perché. La sinistra li ha trasformati nell’avanguardia di lotta contro la distruzione della scuola pubblica, contro la privatizzazione ecc… Né è mancato chi sta ad auscultare, l’orecchio incollato al suolo come i Sioux, il galoppo dei cavalli di un nuovo improbabile ’68.
Ai cattivi slogan degli studenti si risponde con i cattivi luoghi comuni. Il fatto è che questo provvisorio movimento di piazza e di tetto, che si è coagulato oggi attorno al provvedimento Gelmini e negli anni precedenti del decennio contro tentativi di riforma della scuola media superiore, fa un uso politico-simbolico di queste tematiche e non gli importa consapevolmente nulla del merito delle medesime. Gli albori del ’68, che si misurò contro la mitica Legge 2314 del 1967 di Luigi Gui, furono del tutto diversi, tetti a parte. Il movimento di allora si confrontò con ogni paragrafo del testo di quella legge, dei documenti successivi, delle prese di posizione delle autorità accademiche. Il movimento operava come un sindacato riformista, costruiva contro-piattaforme. Qui invece c’è un rifiuto di conoscere e di discutere le proposte, perché opera una sovradeterminazione ideologica che offusca la realtà.
Essa nasce dalla condizione spirituale delle giovani generazioni di questo Paese, alla costruzione della quale hanno contribuito in questi anni in modo decisivo gli adulti, le famiglie, la cultura, la politica, le istituzioni, i cambiamenti epocali in corso. E’ la condizione di chi si vive “senza futuro”. “Senza futuro” vuol dire una disperazione, più o meno quieta: desperatio veri et boni, dentro un Paese in declino, regolato da logiche familistiche, non di merito, senza coerenza praticabile tra ciò che studi e ciò che farai, in casa fino a trent’anni, abituato all’assistenza di lunga durata della famiglia e del welfare pubblico, niente differimento di consumi presenti in vista di un maggior bene futuro, niente sacrifici e rinunce, niente investimenti, tutto è un diritto, nulla è un dovere, con una percezione del tutto irrealistica della società e del tempo storico presente…
La scuola e l’università hanno cessato da tempo di fungere da motore di mobilità sociale, le professioni nobili si ereditano, non si conquistano. Ciò che viene comunicato in piazza e sui tetti è questa disperazione, è il disorientamento di una generazione illusa e delusa. E la tentazione della violenza? Non esageriamo. Negli anni ‘70 volavano molotov, oggi solo uova e ortaggi. Con una differenza, che tocca, viceversa, i comportamenti della politica: per tutti gli anni ’70 la politica si sforzava unitariamente di sedare la violenza che covava in alcuni settori del corpo sociale. Oggi la violenza verbale e lo scontro tracimano dalla politica stessa verso i corpi sociali, da una politica in guerra civile da quindici anni, in cui un blocco si oppone all’altro e parti confliggenti ad altre parti all’interno di ogni blocco.
Se questa è la condizione delle giovani generazioni, oggi, è necessario evitare nei loro confronti il “servo encomio” e il “codardo oltraggio”. Il “servo encomio” è quello di Bersani e Vendola, che salgono poco agilmente sui tetti, e paragonano – è il caso di Vendola – l’Italia di oggi al Cile di Pinochet. Se è questa l’analisi, a quando un appello alla resistenza armata e agli Inti Illimani, che ci cantino l’immancabile “Venceremos”? Il “codardo oltraggio” è quello di Berlusconi, che riprende i moduli dei “benpensanti” dei primi anni ’50 del Novecento, quando manifestare in piazza era considerata faccenda di sfaticati, capelloni e teddy boys.
C’è un’altra strada? Una sola: educare le giovani generazioni alla realtà dura del tempo storico presente. Il primo atto consiste nel dir loro la verità sul Paese, sulla scuola, sull’università, sul mercato del lavoro ecc… Chi ha “in-formato” gli studenti delle superiori e delle università sulla condizione reale delle Università, se non i docenti stessi, che difendono con le unghie e con i denti i propri privilegi, e i politici e i sindacati che li rappresentano? Chi ha fatto credere che il mondo ti viene incontro facile, che non c’è bisogno di sacrifici e di investimenti? Chi ha lasciato credere che la responsabilità e l’impegno personale non contano, bastano buone relazioni sociali e di potere, basta una buona rete corporativa? Chi accredita pubblicamente modelli di vita e di carriera “sopra le righe” o molto al di sotto? Chi svaluta il valore della conoscenza e del lavoro nella vita sociale? Può la politica continuare a mentire sulla condizione econonomico-finanziaria e culturale del Paese, combinando le menzogne con le salite sui tetti e con le tendenze fatali all’ope-legismo, fase suprema del doroteismo e del clientelismo, emerse ripetutamente in questa e altre occasioni in tutti i gruppi parlamentari, di maggioranza e di opposizione? Il tutto per paura di perdere il consenso?
Nella disperazione festosamente esibita di centinaia di migliaia di giovani c’è una domanda di verità che deve essere presa sul serio e alla quale occorre rispondere qui e ora. Non chiedono di “avere ragione”, esigono delle “ragioni”.
Questi ragazzi manifestano per sé e per noi. Capirlo è la condizione per poter dire loro le parole dure e impegnative. E’ la condizione della credibilità adulta.