Un anno fa moriva Pietro Barcellona, filosofo, giurista, uomo politico, che ha attraversato da protagonista la storia repubblicana. Ma anche marito, padre e nonno affettuoso. Amico per tanti. E, per questo giornale, acuto commentatore.
Un libro fresco di stampa, Sottopelle. La storia, gli affetti (Castelvecchi, Roma 2014), a cui Barcellona ha lavorato negli anni della malattia, ci offre la possibilità di entrare nel segreto di questo originale e battagliero intellettuale del Sud. Si tratta di una autobiografia, pubblicata postuma grazie all’intervento dei familiari, in cui la grande storia s’intreccia con le amicizie e gli affetti. Al manoscritto originale mancava solo l’ultima revisione da parte dell’autore, ma il testo esprime bene, anche nello stile, l’animo di Pietro Barcellona, le sue passioni, spesso tumultuose, la sua ansia di ricerca, che lo tormentava senza lasciarlo mai quieto.
Nelle pagine di Sottopelle, dicevamo, emerge la grande storia. C’è, per esempio, il racconto della seconda guerra mondiale vista dalle pendici dell’Etna, con le vicende di paura e sacrificio di una famiglia borghese siciliana. C’è, anche, l’epopea del Pci nel Sud, raccontata attraverso l’adesione al partito da parte del narratore, giovane rampollo di una borghesia anticomunista, che finirà per occupare ruoli di alta responsabilità nell’organizzazione comunista e nella vita politica: da segretario cittadino del Pci a componente laico del Csm a parlamentare. E c’è il dramma del crollo del Muro, la conseguente mutazione di pelle del Pci e lo stravolgimento antropologico dell’intero Occidente. Ci sono, infine, i momenti cruciali della storia italiana contemporanea raccontati da un osservatore privilegiato: l’assassinio Moro, la morte di Berlinguer, l’avvento di Berlusconi nella scena politica fino alla più recente irruzione del M5S.
Nel libro c’è anche uno spaccato della gioventù catanese del secondo dopoguerra, con i suoi riti, le sue emozioni, le sue avventure nel Nord Europa raggiunto in autostop e rimasto nella memoria di alcuni per la natura e per le sue belle ragazze bionde.
Barcellona passa con facilità dalla grande alla piccola storia, ma il protagonista resta sempre lui, forse – come affettuosamente gli rimprovera il figlio Eugenio – “perché [aveva] un forsennato bisogno del riconoscimento degli altri che [gli] imponeva di mettere in piazza tutto ciò che [gli] passava per la mente”, ma anche – diremmo noi – per quella insaziabile voglia di indagare il reale che rendeva Pietro Barcellona un personaggio unico nel panorama intellettuale meridionale.
Possiamo provare a leggere Sottopelle con una doppia chiave di interpretazione. La prima riguarda la storia del Pci di Togliatti e Berlinguer, caratterizzata da una capacità di mediazione “che tende a includere nella propria visione – scrive Barcellona – anche le ragioni degli altri”.
A metà degli anni Settanta, il giurista catanese viene cooptato nel gruppo dirigente del Pci locale. La sua “incoronazione” avviene all’epoca del referendum sul divorzio con un comizio in piazza Università assieme al segretario nazionale del partito, Enrico Berlinguer. Dopo quell’evento, Barcellona fu candidato al Consiglio comunale e gli venne affidata la guida del Pci nella città di Catania che da poco aveva virato massicciamente a destra.
Erano gli anni del grande connubio fra intellettuali e Pci. Barcellona si lancia nella nuova avventura con la passione del neofita: scopre il proletariato cittadino, va a cena coi compagni comunisti e celebra l’avanzata del Pci del 1976 che riporta il partito a Catania oltre il 30% dei consensi.
L’idea berlingueriana del compromesso storico e della via nazionale al comunismo generò i timori di alcune grandi potenze straniere e l’ostilità di frange irriducibili della sinistra italiana. Furono gli anni del grande terrore, la Notte della Repubblica. Il rapimento e l’assassinio di Moro segnarono uno spartiacque nella politica italiana. Il compromesso storico passò nel dimenticatoio, e alle nuove elezioni politiche il Pci subì una sonora batosta, soprattutto al Sud. A Catania, in particolare, il partito perse il 10% dei consensi rispetto al 1976.
Enrico Berlinguer, in un comizio a Catania, attribuì la sconfitta “all’eccesso di astrazione intellettualistica con cui alcuni dirigenti locali [il riferimento a Barcellona era evidente] avevano condotto la campagna elettorale”. Il partito doveva tornare, secondo Berlinguer, alle cose concrete che interessano la gente: l’acqua potabile, l’illuminazione delle strade, i servizi di nettezza urbana. “Quando il comizio finì – annota Barcellona – mi allontanai da solo verso casa con un grande senso di amarezza”.
Il professore catanese accetta la bacchettata, ma non s’arrende. “Ero stato sconfitto – annota nel suo diario – ma non avevo torto”. Per Barcellona la questione meridionale è anche una questione del ceto intellettuale. “Il cuore del Mezzogiorno – sostiene – è malato di mediocrità subalterna e (…) ogni riscatto passa anche attraverso una nuova generazione di intellettuali coraggiosi, leali e non chiusi nelle accademie o nei centri di ricerca”.
Col crollo del Muro il Pci implode, cambia nome e pelle, e chi, come Barcellona, non accetta di chiudere il passato senza fare i conti seriamente con esso, si ritrova improvvisamente senza “casa”, senza amici, senza un orizzonte chiaro di impegno. La fine del Pci diventa per l’intellettuale catanese l’occasione di una crisi intellettuale e fisica. “Mi assalì – scrive drammaticamente – la sensazione di non riuscire a tenere insieme i pezzi di me stesso”.
La svolta intellettuale di Barcellona passa per un libretto di Cornelius Castoriadis, Gli incroci del labirinto, che gli fa scoprire la dimensione affettiva e dell’immaginario “come una sorta di inconscio collettivo, continuamente all’opera nelle viscere di un popolo”. Questa riflessione porta Barcellona a “sbloccare” il suo pensiero “dalla categoria del primato dell’economia su ogni altro fenomeno” e a comprendere che il comunismo era crollato perché in realtà era “una forma della stessa evoluzione del capitalismo”.
Per Barcellona si aprivano le porte di una ricerca sulle dinamiche dell’affettività. I nuovi interessi del professore influenzano le sue scelte all’interno del Centro ricerche dello Stato (Crs) di cui aveva assunto la presidenza rilevando l’eredità di Pietro Ingrao. Ma la svolta intellettuale di Barcellona non convince i compagni del Crs e, dopo 20 anni di amicizia e di strettissima collaborazione, si rompe il legame intellettuale fra Ingrao e Barcellona. Questi viene bollato come un “traditore” della tradizione comunista. “Da allora in poi – annota – non riuscii più a scrivere né su Il Manifesto né su l’Unità“.
Da questo momento in poi fare politica per Barcellona significherà organizzare cultura: formare giovani ricercatori, convocare convegni internazionali, strutture di ricerca e contaminazione di pensiero. E significherà, soprattutto, entrare nella grande sfida culturale del nuovo secolo: “la contrapposizione tra un uomo neuronale che si esaurisce nei suoi circuiti biochimici e bioelettrici, e l’idea di persona come soggettività irriducibile all’oggettività di ogni descrizione possibile”.
Dalla politica attiva, Barcellona passa alla politica culturale, con una attenzione sempre grande per il Sud e per i giovani e con la preoccupazione di lavorare alla “costruzione di una vera e propria agenda dei temi”, su cui sfidare amici e nemici. L’ultima sua creatura fu l’associazione “I Dialoghi d’Aragona” che a Catania ha curato la formazione di giovani laureati.
Ma c’è una seconda chiave di lettura del testo. Essa riguarda il filo rosso delle grandi domande che percorre la biografia dell’intellettuale catanese: “Perché bisogna amare la vita?”, “Cosa cerchiamo in questa notte stellata?”. Commentando una mostra di suoi quadri allestita a Roma e che portava il significativo titolo “Il desiderio dell’impossibile”, Barcellona ci offre la chiave per leggere la sua complessa personalità: “Credo che questo motore interno attraversi tutte le mie passioni, anche quella politica, come bisogno di recupero di una presenza reale con la quale sia possibile una vera relazione amorevole”. Andando al fondo di questa domanda il prof si confronta con le poesie e le analisi sul mondo contemporaneo di Pasolini. L’incontro col prete operaio don Giuseppe Stoppiglia lo porta alla scoperta del volontariato nell’America Latina, mentre l’incontro con don Francesco Ventorino lo porterà ad approfondire il rapporto con Cristo come figura presente nella storia del nostro tempo e della nostra vita. Da qui un viaggio, con la famiglia e gli amici, in Terrasanta sulle orme del Gesù storico.
L’esperienza della malattia, negli ultimi anni della sua vita, lo riporta a fare i conti con la constatazione che “nonostante gli incredibili progressi della scienza e della tecnica, abbiamo ancora la necessità di rispondere alla domanda dei greci e di Leopardi: ‘Se la vita è sventura, / Perché da noi si dura?”. Barcellona arriva ad affermare che “ogni malato che si presenta all’appuntamento con il dolore estremo è un Gesù Cristo che grida il suo abbandono”.
Le ultime riflessioni di Barcellona sono sul collasso dell’Occidente, sull’evento straordinario dell’elezione di Papa Francesco, “il Papa che viene da un altro mondo”, e sulla emergenza educativa: il mondo di oggi ha bisogno più che mai di nuovi maestri che siano anzitutto “modelli viventi”.
Riguardo alla propria situazione personale, Barcellona la fotografa con una frase che racchiude il suo percorso umano e culturale: “Ho sempre sfiorato l’abisso, ma non mi sono mai abbandonato”.