A proposito dell’intervento di Alberto Melloni sulla storia dell’Università Cattolica, pubblicato da Repubblica, hanno già ben scritto Agostino Giovagnoli, Francesco Botturi e Salvatore Abbruzzese. Entrando nel merito e nel metodo di una identità viva e vivace che declina l’eredità di padre Gemelli, Ferrini, Toniolo, Barelli e molti altri ed altre non in modo formale, ma sostanziale, essi hanno portato alla luce i preconcetti e l’inconsistenza dell’astiosa lettura della vicenda dell’ateneo cattolico offerta da Melloni. Ma vi è un secondo accento dell’articolo, che disgusta e preoccupa non meno del primo. Ed è quello che alimenta la tendenza, oggi presente in alcuni circoli intellettuali cattolici, “alla damnatio memoriae del magistero di Giovanni Paolo II che qualcuno vorrebbe (da Theobald a Melloni, per non fare nomi)”, come ha ricordato Botturi.
La damnatio memoriae (“condanna della memoria”) è un retaggio del diritto romano che prevedeva una sanzione storica e culturale del pensiero e della figura, e talvolta anche del nome (abolitio nominis) e delle opere (rescissio actorum) di chi era stato un’autorità riconosciuta, da parte di quanti preparavano una svolta nel corso degli eventi che avrebbe cancellato quando detto, stabilito e compiuto dal condannato alla “morte postuma”. In età imperiale, si arrivò all’abrasione delle iscrizioni dai monumenti, all’abbattimento di statue e allo sfregio delle effigi sulle monete. Marco Antonio fu il primo ad esserne gravato. Non mancarono anche episodi di successiva riabilitazione dei damnati, come quella di Commodo. Nel Medioevo, l’usanza giunse perfino a colpire alcuni pontefici, come papa Formoso, che subì un macabro processo post mortem con esumazione della spoglia, passato alla storia come “sinodo del cadavere” (correva l’anno 897), presieduto dal suo successore papa Stefano VI.
Un tentativo non meno efficace e pervasivo di neutralizzare la portata culturale, ecclesiale e sociale di un papa è la conventio ad tacendum, l’oblio intenzionale delle sue riflessioni, del suo magistero e della sua opera pastorale, citati raramente od obliquamente, ripresi solo per circostanza e non più fatti conoscere e apprezzare da credenti e non credenti. Divengono così un pezzo da museo del cristianesimo, un reperto di archeologia teologica o una pagina ormai voltata della storia ecclesiastica. Le nova et vetera del tesoro evangelico (cfr. Mt 13, 52) sono spezzate nella loro intrinseca unità e le seconde messe da parte perché ritenute un ostacolo all’affermazione ab-soluta delle prime. L’ermeneutica della discontinuità — o addirittura quella dell’antiteticità — diviene il paradigma unico della lettura della storia dell’intellectus fidei et morum e della stessa Chiesa.
E’ comprensibile, ma non giustificabile, che chi non ha stimato e amato uno o più capitoli di questa storia (mal sopportando la stima e l’amore espressi da altri) e prova invece sintonia e trasporto per quello successivo, evidenzi i limiti o i difetti in quello che non stima e ama, a scapito di tutto il positivo che si impone ad uno sguardo cristallino. E’ difficile resistere alla tentazione di cercare la “pagliuzza” nell’occhio altrui. Assai più facile è non accorgersi della “trave” che è nel proprio (cfr. Lc 6, 41). L’antidoto a questa difetto visivo è l’ermeneutica della continuità, che distingue la limpida e sicura acqua corrente dalla pozza torbida d’acqua stagnante che affiora dal terreno: la prima discende senza interruzione dalla sorgente e corre al mare, mentre la seconda si alimenta e si consuma in sé stessa. Con una immagine migliore, quella dell’identico seme, “noi mietiamo quello stesso frumento di verità che fu seminato e che crebbe fino alla maturazione. Poiché dunque c’è qualcosa della primitiva seminagione che può ancora svilupparsi con l’andar del tempo, anche oggi essa può essere oggetto di felice e fruttuosa coltivazione” (san Vincenzo di Lérins, Commonitorium, I, 23). Il buon “frumento cattolico” può ancora essere utilmente coltivato oggi, così come è stato seminato e raccolto da secoli, senza necessità di “modificazioni genetiche” che, per assecondare il gusto del palato moderno, snaturano la sua originaria identità, ne riducono le proprietà nutritive per lo spirito umano e minano la sua sicurezza per la salute delle anime.
Dentro e fuori l’Università Cattolica, il valoroso contributo di san Giovanni Paolo II alla promozione della cultura e alla formazione di intellettuali a servizio della politica non può essere negato né sminuito.
Nel suo primo incontro con l’Ateneo (8 dicembre 1978), papa Wojtyla, riprendendo un’espressione di padre Gemelli, affermava: “Ciò di cui il mondo ha bisogno sono soprattutto le idee: questa era la sua convinzione. E siccome le idee si elaborano e comunicano nella scuola, ecco il progetto ardito di un Istituto che raccogliesse insieme studiosi valenti, sostenuti dall’ideale della ricerca scientifica seria e disinteressata, e giovani volenterosi, animati dal desiderio di camminare con i maestri alla ricerca della verità, per aderirvi appassionatamente e trasmetterne poi generosamente ad altri le ricchezze, divenute ormai sostanza della propria vita”. E così proseguiva: “Ma è in grado la ragione umana di raggiungere, da sola, l’approdo appagante della verità? Il doloroso travaglio degli anni giovanili […] aveva fatto toccare con mano a padre Gemelli la necessità della fede per una risposta pienamente soddisfacente ai problemi di fondo dell’esistenza umana. Egli non temerà, perciò, di dichiarare: ‘La soluzione di questi problemi non la dobbiamo chiedere alle scienze, né pure né applicate, non la dobbiamo chiedere alla filosofia, ma alla religione’. E con chiarezza programmatica stabilirà: ‘Dobbiamo rimontare a Dio, non a un Dio qualunque, presentatoci da una religione naturale, ma a un Dio vivente, a Gesù Cristo, suprema ragione del nostro vivere, suprema bellezza da contemplare, suprema bontà da imitare'”. Nello stesso discorso, Giovanni Paolo II esprime questa certezza: “L’Università Cattolica è nata per rispondere a queste esigenze. Questa fu l’intenzione del suo Fondatore, […]: ‘L’Università Cattolica è stata concepita al sogno audace di far conoscere, amare, seguire il cattolicesimo in Italia’”.
Questo medesimo desiderio e questa concezione di cultura come espressione piena, matura e vissuta della fede in Cristo erano presenti in don Giussani quando venne ad insegnare in Università Cattolica nel 1964, ed hanno trovato sviluppo sistematicamente persuasivo ed educativamente efficace nei corsi da lui tenuti. Uno sguardo sulla realtà tutta dell’uomo, della società e del mondo a partire dall’Avvenimento cristiano che egli trasmise ai suoi allievi, alcuni dei quali ne hanno coltivato ed allargato l’opera culturale nel medesimo Ateneo e in altri, ciascuno nel proprio ambito disciplinare, didattico e professionale, ma mossi dall’identica passione per l’approfondimento e la declinazione delle implicazioni di quella forma singolare e integrale di conoscenza che è la fede. “Nella fede compresa e vissuta, infatti, il progresso culturale trova, anziché un ostacolo, un aiuto impareggiabile” (Giovanni Paolo II, discorso citato).
La presenza del fondatore di Cl e dei suoi allievi in Università Cattolica non fu l’esito di una decisione strategica, voluta dal santo papa Wojtyla o da chiunque altro, ma il naturale frutto di una profonda sintonia ideale e operosa tra il movente che aveva portato padre Gemelli e i suoi discepoli a fondare l’Ateneo e il movimento che si era sviluppato attorno al servo di Dio don Giussani, che valorizzava la tradizione cattolica con uno sguardo non all’indietro, ma tutto proteso alla costruzione del presente e del futuro sulla roccia di Cristo, che “è lo stesso ieri, oggi e sempre” (Eb 13, 8).
“Padre Gemelli — ricordava Giovanni Paolo II, sempre nel 1978 — vide nell’Università Cattolica il luogo privilegiato, nel quale sarebbe stato possibile gettare un ponte tra il passato e il futuro, […] tra i valori della cultura moderna e l’eterno messaggio del Vangelo. Da tale sintesi feconda sarebbe derivato — egli confidava giustamente — un impulso efficacissimo verso l’attuazione di un umanesimo plenario”. Un servizio all’uomo, e dunque alla società italiana, che non passa attraverso la formazione di “intellettuali di riserva”, disponibili per ogni stagione politica perché indisposti a “obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At 5, 29), ma attraverso la coltivazione nell’animo dei giovani e degli adulti dell’amore alla Bellezza, alla Verità, alla Giustizia e al Bene, da cui solo sgorga un’autentica amicizia civica con tutti e un’intelligente passione per ogni accento di bello, di vero, di giusto e di buono, ovunque e in chiunque si manifesti.
È, questa, l’eredità imperitura di san Giovanni Paolo II per l’Università Cattolica e per ogni luogo di educazione alla fede che diventa cultura per servire l’uomo e la società, un tesoro cui la politica può attingere per il bene comune del nostro Paese, oggi e domani non meno che ieri. Chi vuole la damnatio memoriae o la conventio ad tacendum di papa Wojtyla e del suo insegnamento non lavora per costruire, ma per demolire. Il presente e il futuro non hanno bisogno di macerie, ma di edifici di pietre vive costruiti sulla roccia.