Il 4 giugno del 1949 moriva, ad Aix-en-Provence, Maurice Blondel, uno dei più grandi pensatori cattolici del ‘900. Il suo capolavoro, L’action del 1893, non era esente da ambiguità. Tra di esse un’impostazione fortemente antintellettualistica, incentrata sul primato dell’azione, e una connessione troppo rigida tra naturale e soprannaturale. Al di là di questi limiti essa conteneva però un’intuizione fondamentale: quella per cui lo spirito tende, per via interna, a superarsi in direzione di un infinito che non possiede. La vita dello spirito è segnata da una sproporzione che la muove a rinvenire fuori di sé quell’appagamento che non riesce a trovare in sé. Era la via “agostiniana” verso Dio che Blondel riscopriva a partire dalle istanze più profonde del pensiero moderno. Quel pensiero era giunto, in talune sue espressioni, a chiudere lo spirito in se stesso, in una perfetta, soffocante, autosufficienza. Questo, per il filosofo di Aix, non era possibile. V’è in noi «la coscienza di una sproporzione insanabile tra l’impulso della volontà e il termine umano dell’azione». Questo conduce l’io all’aperto, fuori di sé, alla considerazione del valore di verità della fede e dei suoi dogmi. « In altri termini è legittimo confrontarli con le esigenze profonde della volontà, scoprire in essi , se vi si trova, il riflesso di nostri bisogni reali e la risposta auspicata. È legittimo accettarli a titolo di ipotesi».
La sproporzione dello spirito, teso ad un bene che eccede le sue possibilità, lo conduce all’ipotesi della Rivelazione, alla verifica della corrispondenza tra il dato cristiano e le esigenze profonde dell’animo. Opportunamente precisata questa impostazione, in una forma tale da incontrarsi con l’antropologia tomistica, sarà all’origine della dottrina del “senso religioso”.
A partire dagli anni ’10, del secolo scorso, Blondel provvide , con attenzione, a rettificare quanto di impreciso v’era nella sua prima concezione del rapporto tra natura e grazia. Ne è documento l’interessante carteggio incorso tra lui e il gesuita Teilhard de Chardin, nel dicembre del 1919, pubblicato da Henri de Lubac nel 1965. Di fronte al Cristo “cosmico” di Teilhard, per il quale l’intera natura veniva soprannaturalizzata in blocco, Blondel obiettava come il “Pancristismo” era un termine ambiguo. Se il mondo diveniva integralmente “divino” il cristianesimo diveniva integralmente “umano”. Per questo occorreva «sottolineare con sempre maggiore chiarezza e forza la trascendenza assoluta del dono divino, il carattere inevitabilmente soprannaturale del disegno deificante, e di conseguenza la trasformazione morale e la dilatazione spirituale che la grazia permette ed esige. Benché in un senso vi è continuità nell’ordine universale, in un altro senso vi è incommensurabilità, capovolgimento dell’uomo vecchio e della vecchia natura, per la nascita del “novum coelum” e della “nova terra”. Il secondo Blondel correggeva in tal modo il primo senza rinnegare, con ciò, l’intuizione fondamentale de L’action, quell’inquietudine del cuore che, per Agostino, costituiva il segno più evidente del destino metafisico dell’uomo.