Da sempre, nell’ambito della sua produzione narrativa quantomeno, Edgardo Franzosini si dedica a comporre eccentriche biografie in forma di romanzo. La loro principale caratteristica, oltre a quella di non riferirsi a personaggi troppo celebri (in quanto debbono essere conosciuti dal lettore, ma non troppo), è di porsi — idealmente ancor più che stilisticamente — su un piano analogo a quello delle celebri Vite immaginarie di Marcel Schwob. Insomma queste biografie, pur basandosi su dati/riferimenti storici obiettivi, sono innanzitutto testi letterari che non hanno la pretesa di ricostruire imparzialmente le vite narrate, bensì si pongono quali soggettive interpretazioni/visioni di questa o quella parabola esistenziale presa in esame.
Franzosini si è dunque occupato, fra vari altri, di Bela Lugosi (l’attore hollywoodiano così legato al ruolo cinematografico del vampiro Dracula da identificarsi in modo maniacale con tale personaggio), di Raymond Isidore (l’artista che trasformò la sua dimora in una vera e propria opera d’arte rivestendola all’esterno come all’interno con un mosaico policromo, le cui tessere erano state ricavate da schegge di piatti, tazze, bicchieri e bottiglie colorate), di Giuseppe Ripamonti (il latinista ex protégé di Federico Borromeo, finito poi in disgrazia ed in carcere forse non già per essersi occupato di magia e stregoneria, bensì per la colpevole vanità del cardinale), e infine di Rembrandt Bugatti (l’appartato e schivo scultore, fratello di quell’Ettore che fondò agli inizi del Novecento la notissima casa automobilistica francese) su cui Franzosini ha scritto il suo più recente romanzo biografico: Questa vita tuttavia mi pesa molto, edito da Adelphi (2015).
La vicenda è ambientata nella capitale francese, durante l’inizio della prima guerra mondiale. Rembrandt Bugatti ha il suo alloggio-studio a Parigi, al numero 3 di rue Joseph-Bara, dove hanno soggiornato Paul Gauguin e Jules Pascin. Il protagonista ci viene presentato come un “uomo distinto, riservato, dall’atteggiamento sempre composto, dal viso angoloso e dall’espressione seria”. E un artista come il nostro Rembrandt non fa certo salire da lui giovani modelle da cui trarre ispirazione, essendo uomo sin troppo solitario. D’altronde è difficile portarsi in studio una tigre, un elefante o anche solo un giaguaro. Sono infatti questi i modelli che interessano allo scultore italiano, che “si sente a suo agio solo in mezzo agli animali, solo a contatto con quella comunità senza parole”. Così Bugatti si reca ogni giorno al giardino zoologico, essendo riuscito persino a ottenere il permesso di entrare nei recinti dove sono rinchiuse bestie davvero feroci. Sì, non bada troppo agli umani quella sorta di misantropo, ma sa realizzare mirabili/ineguagliabili sculture di quadrupedi e uccelli, ora riproducendo nei più minimi dettagli umili e minuscole creature, ora esprimendo la nobile fierezza di belve maestose.
Nel fatale 1914 lo scultore si trova pure ad Anversa, sede di uno splendido giardino zoologico. Ma la città è bombardata dai tedeschi e le autorità sono costrette a prendere una decisione che colpirà profondamente Rembrandt: tutti gli animali dello zoo dovranno essere abbattuti. Per Bugatti ciò segna l’inizio di una crisi — sia psicologica che esistenziale — superare la quale gli risulterà impossibile. E risulta splendido nella sua limpidezza evocativa il breve capitolo in cui Franzosini descrive l’eccidio di quelle povere bestie inermi, massacrate freddamente dai soldati con imperturbabile efficienza. Ma come non accostare tale strage di creature innocenti a quella ben più vasta e atroce delle vittime umane che la grande guerra sta perpetrando? Infatti l’autore lo fa in una pagina equilibrata da un’estrema misura espressiva, attraverso una pietas commossa ma composta: per non cedere né alla retorica, né ai troppo facili eccessi granguignoleschi.
Il ritorno di Bugatti in Francia costituisce però l’inizio della fine. Per la prima volta turbato dalla sofferenza di esseri umani egli ha un’intuizione che potrebbe segnare una svolta nella sua arte come nella sua vita. Abbozza un Cristo in croce: simbolo della massima afflizione ma pure indice di un suo possibile trascendimento. Ma ormai l’angoscia lo divora: lui così parco nell’esternare le proprie emozioni scriverà al fratello: “Questa vita tuttavia mi pesa molto”. Verrà trovato poco tempo dopo dalla polizia, allarmata per la puzza di gas che fuoriesce dallo studio di rue Joseph-Bara, disteso sul letto e “vestito in modo impeccabile”.
Di tutte le pur riuscite biografie scritte da Franzosini, è questa a mio avviso la migliore. Forse perché più asciutta delle altre, più scarna, essenziale e intensa: volta com’è a dar voce ad un personaggio così tendente all’afonia e all’insignificanza, ad onta dell’indubbia valentia artistica e dei riconoscimenti ricevuti. Rembrandt quindi come uomo qualunque, ancor prima dello scultore Bugatti. Questo il pregio della narrazione trascinatrice di un autore che mi pare non cerchi più solo di stupire il suo pubblico con l’intelligenza della propria scrittura/cultura, ma intenda aprire uno spiraglio di luce/attenzione su un personaggio forse caratterizzato soprattutto dall’essere semplicemente umano, troppo umano. Così auspicherei senz’altro che la prossima biografia di Franzosini possa incentrarsi giusto sulla vita ordinaria d’un individuo qualunque, anonimo, ordinario. Anche perché, come scrisse Arturo Graf, “A compiacersi del semplice ci vuole un’anima grande“.