«Il mondo», osserva Arthur Koestler a proposito del processo di Lipsia del 1933, «credeva di assistere a una classica battaglia tra la verità e la menzogna, la colpa e l’innocenza», «perché il mondo non era ancora abituato agli effetti scenici, agli imbrogli fantastici e ai metodi melodrammatici della propaganda totalitaria». In realtà, aggiunge lo scrittore ungherese, il procedimento penale contro i “presunti” autori dell’incendio del Reichstag era uno scontro ideologico tra Berlino e Mosca. Uno scontro, disseminato di stratagemmi, in cui si contrapposero due stregoni della propaganda. L’uno nazista, l’altro comunista. «I due stregoni erano il dottor Joseph Goebbels e Willi Münzenberg».
Ma, sottolinea Koestler, «pochi sapevano, e sanno ancora oggi, dell’esistenza del secondo». A questa figura pressoché sconosciuta è dedicato un recente volume di Martino Cervo, Willi Münzenberg il megafono di Stalin. Vita del capo della propaganda comunista in Occidente (Cantagalli, Siena 2013, pp. 112). Il libro mette fine all’oblio che – almeno, in Italia – aveva sempre inspiegabilmente avvolto la vita di questo straordinario imprenditore della comunicazione politica. Nato a Erfurt nel 1889, Münzenberg rimane stregato dall’incontro con Lenin e, a partire dalla fine della Prima guerra mondiale, inizia a veicolare con grande successo la diffusione del comunismo in Europa. Attraverso una naturale capacità di manipolazione dell’informazione, oltre che una geniale strategia comunicativa, egli riesce così a tradurre in linguaggio borghese il credo comunista.
Per molti versi, propone il “comunismo senza comunisti” all’interno del mondo atlantico. Fonda giornali e riviste rivolti a ogni genere di pubblico. Promuove programmi radiofonici e pellicole cinematografiche (a lui si deve la fortuna della Corazzata Potiomkin). Quando una carestia colpisce il basso Volga, Münzenberg inventa con grande successo lo strumento della sottoscrizione. Mobilita così migliaia di persone per prestare soccorso attraverso la beneficenza ai compagni colpiti dalla fame. Organizza appelli e viaggi in Russia per mostrare le “meraviglie” del socialismo reale. Lancia il pacifismo (rigorosamente a senso unico) e inventa quello che sarebbe poi diventato il terzomondismo filosovietico. Ma è soprattutto la sua abilità – di matrice genuinamente gramsciana – ad arruolare «compagni di strada» tra i più prestigiosi intellettuali occidentali a costituire forse l’aspetto più interessante della sua eredità di insuperabile catalizzatore della comunicazione politica.
Da Albert Einstein a Thomas Mann, da Sigmund Freud a Ginger Rogers, fino a Groucho Marx, Fritz Lang e Billy Wilder, sono tantissimi i protagonisti della scienza, della letteratura e del cinema che Münzenberg riesce a coinvolgere – a loro insaputa – nella strategia di promozione “discreta” del comunismo.
L’opera di Martino Cervo offre un’interessante narrazione dell’avvincente esistenza di questo poliedrico comunista tedesco, che finirà i suoi giorni braccato sia dalla Gestapo, sia dalla Nkvd. Strenuo oppositore del nazionalsocialismo, Münzenberg è il pragmatico depositario dell’ideologia sovietica. Tuttavia, mantiene sempre una posizione eterodossa nei confronti di Mosca, che gli procura non pochi problemi e un numero elevato di nemici. Alla vigilia del patto Ribbentrop-Molotov, Münzenberg sfida Stalin ed è costretto alla fuga prima in Svizzera e poi in Francia. Nell’ultimo colpo di scena di una vita che somiglia terribilmente a una spy story, Münzenberg diventa addirittura liberale.
E, dalle colonne di Die Zukunft, inizia a combattere una battaglia culturale per il futuro della democrazia in Europa. Nell’autunno del 1940, Münzenberg – ufficialmente morto suicida, anche se la sua compagna accusa da subito gli agenti di Stalin – viene ritrovato con una corda intorno al collo in un bosco della provincia francese. Il nodo di quella corda per lungo tempo ha soffocato il ricordo di una figura centrale del XX secolo. Una figura che è stata volutamente rimossa dalla storia per la sua poliedrica capacità di manipolare i canali della comunicazione politico-ideologica novecentesca. Martino Cervo scioglie – e, in un certo senso, taglia gordianamente – proprio quel nodo, restituendo la necessaria attenzione sulla parabola esistenziale di un grande “stregone” della propaganda.