Quando esce il nuovo libro di una brava autrice c’è sempre una certa trepidazione. Se puoi questa brava autrice è anche stata tua co-autrice la trepidazione aumenta. Se poi la brava autrice che è stata anche tua co-autrice è diventata pure un’amica perché ha condiviso con te qualcosa che si potrebbe chiamare senza falsi pudori intimo, la trepidazione si trasforma in vera preoccupazione. Intimo perché c’è intimità, c’è prossimità nel permettere a un altro di aggiungere una virgola, di toglierti un punto esclamativo, di allungarti un paragrafo, spezzarti un capitolo e dirti guarda che questa frase proprio non gira. Preoccupazione perché sai che è brava, hai imparato a conoscere la sua scrittura quasi quanto la tua, sei certo della cura con cui sceglie ogni singola parola e allora ti dici speriamo che sia bello, che le sia venuto bene perché sai che anche se è brava non è detto che tutti i libri vengano bene e che se è un brutto libro poi sei nei guai perché non sai come dirglielo e soprattutto non potresti mai raccomandarlo. Ma anche se è bello sei nei guai, perché tutti penseranno che scrivi che è bello solo perché è tua amica e ci hai fatto un libro insieme e che per un altro non l’avresti fatto, e non ne esci più.
Allora meglio aprire subito My Bass Guitar, edito da San Paolo, pur dentro tutta questa preoccupazione, già soddisfatto della copertina che attira e invoglia a leggere.
È tempo di lasciar spazio alle parole dell’incipit.
“Quando vivi solo, ci sono un sacco di cose che non puoi fare”.
Mi immergo nella vicenda di Noah, un diciassettenne che vive solo non per scelta, ma perché gli è toccato così, perché ciò che è accaduto alla sua famiglia, a sua madre e suo padre, lo ha portato a quello. Non è una storia da raccontare quella di Noah, non in una recensione almeno, bisogna scoprirla pagina per pagina e lasciarla scoprire, con gusto, al lettore.
Basti sapere che c’è dentro la musica. La musica vera, quella scritta sul pentagramma che fa vibrare le corde fisiche del basso e del piano di una band di ragazzi ambiziosi alle prese col diventare adulti e quella, altrettanto vera, che suona nel cuore, che fa vibrare le corde immateriali dei pensieri, alle prese con un reale che a volte è difficile comprendere.
Basti sapere che c’è l’amore dei giovani, non quello affrettato e consumato come un fast food e nemmeno quello tormentato di chi non riesce mai a concludere. Ma soprattutto ci sono i ragazzi.
È questa la cifra di Benedetta Bonfiglioli: saper raccontare giovani, anche problematici, che non sono sfasciati, che non sono precocemente cinici e sfiduciati, ma che conservano, pur dentro le difficoltà, il desiderio di stare bene, la voglia di costruire e pensarsi con un futuro, la capacità di riprendersi se qualcuno offre loro una mano. Ragazzi che se trovano un adulto favorevole − in questo libro la Zia Mare, così discretamente presente, che non fa mai un passo di troppo, ma non esita a porre le questioni giuste al momento opportuno – non ci si oppongono per principio, sanno ascoltarlo e sanno verificare per sé se ciò che hanno sentito è interessante oppure no, è vantaggioso oppure no.
Non è facile diventare grandi, specie se le famiglie si sfasciano e ci si trova in mezzo come un sughero tra i flutti: si fa su e giù, ma non ci si muove, non si va da nessuna parte. A meno che qualcuno non ti dica vieni con me.
My bass guitar, è un libro pesantemente leggero. C’è un pondus nella storia, nelle questioni affrontate – separazione, malattia, solitudine − nell’interrogarsi su cosa succede e non riuscire a capirlo. C’è però anche la leggerezza di soluzioni possibili e di una storia d’amore, una storia “rosa” che non si vergogna di voler intrattenere e talvolta concedere anche qualcosa di troppo al genere, ma che non per questo è disposta a scivolare nel banale e nello stereotipo.
Forse Noah a tratti è un po’ troppo tenero, forse le descrizioni talora si fissano sui dettagli rallentando il ritmo. Peccati veniali, rispetto alla poesia di molte pagine e soprattutto rispetto a come ci viene da pensare i ragazzi una volta chiuso il libro. Questa sì, una preziosa rarità. Nella certezza che anche per loro “guardare avanti e non in terra voglia dire qualcosa”.