Il 3 settembre scorso, Il Giornale (unico tra i quotidiani a diffusione nazionale) pubblicava la cronaca di un evento culturale svoltosi due sere prima a Desenzano sul Garda. Riproduco l’articolo:
“Una ferita ancora aperta nella storia del nostro Paese, una delle pagine più drammatiche: il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Se ne sono occupati in tanti, dal Parlamento fino al cinema ed ora, la ricostruzione fedele dell’agguato di via Fani, nel corso del quale nel 1978 venne rapito Aldo Moro e furono uccisi gli agenti della sua scorta, contenuta nel film del 2003 «Piazza delle Cinque Lune» , potrebbe diventare un atto ufficiale. «Chiedo che possa essere acquisita come prova nelle indagini della nuova commissione di inchiesta che indaga sul rapimento e l’assassino del presidente della Democrazia Cristiana da parte delle Brigate Rosse», spiega il regista del film, Renzo Martinelli, dal palco de «La Gardesana 2014», l’evento in programma a Desenzano del Garda (Brescia) fino al 5 settembre. Il regista, intervistato da Giovanni Terzi, ha raccontato come la scena dell’attentato sia stata «girata più volte utilizzando tutti gli elementi fotografici e le testimonianze raccolte dalla magistratura». Una ricostruzione, secondo Martinelli, «che smentisce nei fatti la versione ufficiale dell’inchiesta» e risulterebbe più accurata di quella ufficiale ma, spiega Martinelli, «nessuno ci ha mai convocato per analizzare quello che abbiamo provato sul campo». Una nuova commissione si sta attivando per fare luce su quei fatti anche grazie al libro scritto da Ferdinando Imposimato, giudice che seguì il caso Moro. Ed ora, un aiuto per far luce su quella drammatica pagina, potrebbe arrivare anche dal cinema“.
Fin qui la stringata ed essenziale, ma ineccepibile, cronaca del Giornale. Che ci suggerisce alcune considerazioni. Il delitto Moro è tornato di stretta attualità non soltanto per la decisione del Parlamento di dare vita ad una commissione d’indagine su quel crimine mai chiarito, ma anche per la riapertura delle indagini ad opera dell’autorità giudiziaria. Infatti, il pubblico ministero del tribunale di Roma Luca Palamara, titolare del fascicolo, si è recato negli Usa per interrogare il funzionario statale americano Steve Pieczenik, oggi settantenne, che, durante il sequestro Moro fu inviato a Roma dal presidente americano Jimmy Carter quale consulente del ministro degli Interni Francesco Cossiga. Non sappiamo che cosa abbia detto Pieczenik a Palamara, e non è nostro costume interferire nell’attività della magistratura, ma formuliamo l’auspicio che si voglia finalmente andare a fondo su un crimine politico tra i più gravi della storia italiana del Novecento e fare finalmente chiarezza su una delle organizzazioni più oscure che hanno insanguinato per un decennio le nostre città: le Brigate rosse.
Ci limitiamo a ricordare che, dopo la morte di Margherita Cagol, compagna del fondatore delle Br Renato Curcio (1975, conflitto a fuoco con i carabinieri alla Cascina Spiotta di Acqui Terme per la liberazione dell’industriale Gancia rapito a scopo di estorsione), e con la seconda e definitiva cattura di Curcio e del suo braccio destro Franceschini (gennaio 1976), la direzione del movimento passò a Mario Moretti. Da quel momento ebbe inizio la serie interminabile di omicidi premeditati a freddo − a cominciare da quello del procuratore generale di Genova Francesco Coco e della sua scorta – che mai, prima di allora, si erano verificati.
Mario Moretti era un freddo e determinato stratega, non un ingenuo idealista. Perché, se lo fosse stato, non avrebbe sequestrato Aldo Moro (per scambiarlo con 12 compagni detenuti), ma magari Andreotti, o Fanfani. Di sicuro, un leader Dc gradito all’Occidente, alla Nato, agli Usa. Invece, Moro era assolutamente sgradito agli Stati Uniti, perché aveva deciso di aprire le porte del governo al partito di Berlinguer, ormai non più asservito a Mosca. Ma questo particolare (cioè un Pci finalmente italianizzato), l’America di Carter, di Henry Kissinger e di Pieczenik non lo dava certamente per scontato. Per loro, affidare qualche ministero al Pci significava consegnare all’Urss le chiavi di tutte le basi militari americane, i depositi di armi anche atomiche, i segreti americani sul nostro territorio. Non per nulla, durante un suo viaggio negli Stati Uniti, Kissinger aveva sibilato a Moro: «Lei la deve smettere di volere il Pci nel governo. O la smette, o la pagherà cara» (testimonianza della moglie di Moro, Noretta, alla Commissione parlamentare).
A questo punto, qualcuno potrebbe domandarsi come mai nessuno, all’interno dello staff delle Br, pensò di dissuadere Moretti dal puntare sull’obiettivo Moro, leader democristiano sì, ma di certo non sgradito alla sinistra. La risposta è molto semplice: quello staff, come peraltro l’intera base brigatista, era composto da una massa di idioti.
E vediamo come Mario Moretti ha scontato i sei ergastoli cui fu condannato. Oggi sessantottenne, è in regime di semilibertà dal 1997. La notte (ma il particolare andrebbe controllato, e noi non abbiamo né tempo né modo per farlo) va a dormire nel carcere milanese di Opera e di giorno lavora, come dirigente, in una cooperativa che gestisce gli impianti informatici della Regione Lombardia. Ha scritto un libro di successo (Brigate rosse, una storia italiana) e ha fondato l’Associazione “Geometrie variabili” per fornire «lavoro non alienante ai detenuti». Di geometria (la «geometrica potenza di via Fani») parlava anche, a proposito dell’annientamento della scorta di Moro, il suo braccio destro Oreste Scalzone, scarcerato «per motivi di salute», poi «esule» a Parigi fino al 2007, quando poté tornare in Italia senza scontare la condanna perché i giudici della Corte d’Assise di Milano avevano sancito l’«intervenuta prescrizione in relazione ai reati di partecipazione ad associazione sovversiva, banda armata e rapine».
Già questi particolari inducono a forti perplessità. Ma c’è ben altro che merita di essere approfondito, pubblicizzato e seguito. Ci riferiamo alle testimonianze storiche di due personalità come il senatore Giovanni Pellegrino, per ben sette anni, dal 1994 al 2001, presidente della Commissione parlamentare stragi, e il senatore Ferdinando Imposimato, già giudice istruttore per il sequestro e l’assassinio Moro, poi senatore, poi presidente della Cassazione e ora avvocato e storico.
Pellegrino ha scritto, con Giovanni Fasanella, il libro-intervista Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro (Einaudi), in cui sostiene che Moro fu ucciso per ordine della Cia. Dunque, Brigate rosse telecomandate, con il beneplacito del Kgb, che temeva di perdere il controllo di un Pci inserito nel governo Moro e dunque deciso a privilegiare gli interessi dell’Italia e non più quelli dell’Urss.
Imposimato, di libri ne ha scritti addirittura tre: Moro doveva morire (con Sandro Provvisionato), La Repubblica delle stragi impunite (2012) e I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia (2013). Questi libri-testimonianza sono quattro clamorose conferme al film “Piazza delle Cinque Lune”, girato da Renzo Martinelli nel 2003.
È ormai di tutta evidenza che, con l’assassinio di Aldo Moro, fu raggiunto un duplice risultato: 1) eliminare il rischio di agenti sovietici in posti chiave del governo italiano; 2) dare inizio all’autodistruzione delle Br, sempre più osteggiate dal Pci e dalla Sinistra legalitaria. Il che significa una cosa soltanto: che Cia e Kgb “gestirono”, ciascuno mirando ai propri interessi, il vertice decisionale della Brigate rosse.
Se Parlamento a magistratura (“primo” e “terzo” potere) riuscissero a chiudere definitivamente la faccenda, non sarebbe davvero male. Quanto al “quarto” potere (la stampa, i miei colleghi giornalisti), lasciamo perdere… Un’ultima osservazione. Michael Ledeen, giornalista americano, storico, esperto delle vicende italiane, risulta essere stato accanto ad Antonio Di Pietro nel suo viaggio in America del ’95 (conferenze, seminari, incontri). Ledeen aveva avuto un ruolo importante durante la vicenda di Sigonella (ottobre 1985, Abu Abbas, capo dell’Olp, catturato dagli americani, poi costretti dai Carabinieri ad abbassare le armi), come interprete del duro scontro telefonico tra il capo del governo italiano Bettino Craxi e il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan. Stefania Craxi ha dichiarato a Panorama nel settembre 2012 che suo padre era convinto del ruolo della Cia dietro l’operazione Mani Pulite. Qualche collega giornalista con meno anni e più mezzi del sottoscritto vorrebbe approfondire?