Defunctus adhuc loquitur, parla anche da morto. Fu con queste parole che Franz König, cardinale di Vienna, nel maggio del 1975 diede l’ultimo addio al defunto cardinale József Mindszenty, nato 120 anni fa. Già presso la camera ardente in molti lo definirono uno dei più grandi ungheresi del XX secolo, “un martire bianco”. Possiamo chiamarlo martire perché egli soffrì incredibilmente tanto, sia fisicamente che spiritualmente. I suoi aguzzini si impegnarono particolarmente allo scopo con metodi che si superavano in crudeltà con il passare del tempo. Tuttavia essi prestarono estrema attenzione – potremmo dire con infinita malignità – affinché Mindszenty non diventasse in nessun modo “martire rosso”. Anche gli aguzzini sapevano molto bene che il sangue versato dai martiri è la semina dei cristiani.
Il fatto che il cardinale Mindszenty non diventò un martire insanguinato significò per lui la continuazione delle sofferenze. Le sue pene infatti non finirono neppure dopo interrogatori brutali e mesi di carcere che umiliarono la dignità dell’uomo. Egli soffrì insieme al suo popolo umiliato, oppresso, torturato e chiuso in carcere sia nell’esilio vissuto presso l’Ambasciata degli Stati Uniti che durante l’emigrazione in Occidente. E sopra quel popolo – secondo le parole di un poeta – “ricoprirono di latta ogni finestra” (Tibor Tollas).
Il cardinale József Mindszenty parla anche da defunto perché le sue parole e le sue azioni erano eloquenti già quando egli era in vita. Le sue parole e le sofferenze patite da vivo hanno dato la forza a tante persone affinché esse potessero sopportare le proprie tribolazioni durante gli anni della dittatura comunista, nemica della Chiesa e della religione. Un’epoca in cui era addirittura consigliabile pronunciare il nome del cardinale soltanto se sussurrato all’orecchio. Quando nel 1975 presso il Liceo Benedettino di Gyor apprendemmo la notizia della morte di Mindszenty, perfino fra di noi avemmo il coraggio di diffondere la notizia solamente sussurrando. Perché si sa, “Dove c’è la tirannide,/ c’è la tirannide… non solo nel segreto/ su una porta socchiusa/ nello spavento/ nelle notizie sussurrate/ cadendo davanti alla bocca/ sul dito che indica il silenzio/ … perché dove c’è la tirannide,/ lì c’è la tirannide” (Gyula Illyés).
Durante gli anni della tirannide le parole del cardinale Mindszenty infusero fede, forza, speranza, coraggio e tenacia indifferentemente ai sacerdoti, ai frati e ai fedeli laici finiti in prigione. Ciò che è particolarmente sorprendente è il fatto che questo non avvenne solo nel nostro Paese, bensì in tutti i luoghi in cui la dittatura sovietica occupatrice opprimeva e tormentava i credenti. Soltanto a posteriori siamo venuti a sapere che in tutto il mondo si è pregato per il cardinale e per il nostro popolo perché egli è divenuto nel tempo una personalità emblematica nella lotta per la fede e per la libertà di confessione.
Il cardinale József Mindszenty parla anche da defunto perché nemmeno da vivo poterono metterlo a tacere né con le armi, né con la tortura. E come avrebbe potuto restare in silenzio visto che come sacerdote aveva ricevuto una missione profetica, per poter parlare a tutta la gente della forza e dell’amore misericordioso di Dio? E come avrebbe fatto a non parlare quando da vescovo ricevette l’invito di annunciare il Vangelo “in ogni occasione opportuna e non opportuna” (2Tm 4,2)?
Lo rinchiusero in prigione, praticamente togliendolo dalla circolazione, per farlo tacere. Però i suoi nemici non sapevano che se si mette a tacere un discepolo di Gesù al posto suo grideranno le pietre (cfr. Lc 19,40).
Il cardinale József Mindszenty parla anche da defunto perché la sua vocazione per la morte, il suo amore per la Chiesa e per la nazione ungherese lo hanno reso ancora più eloquente. È per questo che non soltanto i cattolici ma anche i credenti protestanti ed ebrei lo hanno sentito come parte di loro. È per questo che lo hanno sentito come parte di loro non solo i credenti ma anche i non credenti ungheresi i quali hanno respinto, provando compassione, la crudeltà che avvilisce l’uomo.
Ammiriamo orgogliosi il cardinale Mindszenty perché nessun tipo di potere o di tortura crudele hanno potuto spezzarlo. Perciò a ragione possiamo definirlo grande ungherese, vescovo coraggioso e martire di Cristo. Pur essendo consapevoli che, con quest’ultima parola, bisognerà andarci cauti fino alla beatificazione che, si spera, non si farà ormai attendere a lungo.
Ed è proprio perché il cardinale Mindszenty ci parla anche da defunto che oggi inauguriamo questa esposizione permanente. I suoi oggetti, gli abiti – essi rappresentano gli oggetti muti – possono parlarci anche oggi. Rievocarci l’eroismo del cardinale il cui esempio deve donare anche a noi la forza, la costanza nella fede. Come figli odierni della sua terra natale vogliamo rendergli omaggio in occasione dell’anniversario della sua nascita.
Gentili Ospiti, prestiamo ascolto al messaggio che il cardinale József Mindszenty ci rivolge pur da defunto. Rafforziamo il suo messaggio nei tempi che viviamo con le nostre parole e con la testimonianza delle nostre vite affinché questa parola giunga anche agli altri. La sua speranza infiammi anche i nostri cuori: “Se ci sarà un milione di ungheresi in preghiera allora io non avrò paura del futuro”. Dunque non dobbiamo aver paura né del presente, né del futuro.
L’articolo proposto, inedito in italiano, è il discorso tenuto da Mons. András Veres, vescovo di Szombathely, in occasione dell’apertura di una esposizione permanente dedicata al primate di Ungheria József Mindszenty (1892-1975), il 28 marzo 2012.