L’eccellenza, “caso serio” della scuola italiana, fa effettivamente paura, come sostiene Cominelli nel suo articolo di lunedì, e resta nell’angolo buio del dibattito più “infestato dai pregiudizi”. Non si può tuttavia non parlarne. Sarebbe come censurare le ragioni dell’esistenza della scuola e il senso della professione docente.
A che serve, infatti, una scuola se non per affermare fattivamente che ogni bambino, ogni ragazzo, ogni giovane può e deve distinguersi dagli altri, grazie allo sviluppo dei suoi talenti proprio nell’insegnamento-apprendimento delle materie di studio? E che cosa è l’eccellenza se non un “salire oltre”, come suggerisce l’etimologia di eccellere: “spingersi oltre, superare gli altri, distinguersi dagli altri proprio per i suoi talenti”?
Affermare una distinzione non vuol dire negare l’equità e l’uguaglianza. Vuol dire semplicemente rifiutare l’egalitarismo ovvero la riduzione di se stessi e delle altre persone a quel minimo denominatore comune, la cui essenza è misto di astrazioni e di parzialità dell’idea di uomo, elaborato dall’ ideologia.
Anch’io, per parecchi anni, mi sono lasciato afferrare dalla paura dell’eccellenza. Il termine mi richiamava il sistema di selezione-bocciatura di quando la scuola veniva considerata ed organizzata, per dirla con Strobel, come luogo della “sopravvivenza dei più dotati”. Nonostante i discorsi e i ri-corsi sul “successo formativo” come “pieno sviluppo della persona umana” secondo l’art. 3 della Costituzione (vedi, tra l’altro, il Regolamento sull’autonomia scolastica), non capivo che eccellente è innanzitutto l’alunno che ha imparato (o sta imparando) a coltivare e sviluppare tutti i suoi talenti, in primis, la ragione e la libertà. Oggi mi è chiara una cosa che, pure essendo elementare, prima non scorgevo. Questa: il punto di partenza dell’insegnamento non è guardare “se di talenti questo alunno ne ha di più e quell’ altro di meno”, ma avere cura del talento dei talenti di ognuno: il suo essere persona, soggetto unico ed irrepetibile, “universo di dignità infinita” (don Milani), sano portatore di talenti da trafficare.
Si capisce allora perché Cominelli opportunamente connette eccellenza a personalizzazione. L’eccellenza a scuola è innanzitutto l’emergenza della propria umanità così come viene riconosciuta e coltivata, in tutte le sue dimensioni, nell’apprendimento insegnato delle discipline, che sono punti di vista sul reale con-segnati e verificati nella mediazione didattica. Non è semplicemente statura di un sapere (che, come, perchè ..) accumulato nelle aule e misurato nelle stanze dei selezionatori dei giocatori destinati alle squadre vincenti.
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La personalizzazione, qui in sintesi per ovvie ragioni, è criterio di organizzazione del tempo e dello spazio scolastico, concretizzazione della centralità dello studente in carne ed ossa, principio metodologico di ogni elaborazione didattica, di ogni lezione, di ogni attività di valutazione, elemento distintivo della professionalità del docente. Personalizzare un piano di lavoro, per esempio, è esercitare la propria professione in modo che tutti gli studenti, come i compagni di Camus ad Algeri nella classe del maestro Bernard, possano accorgersi «di esistere e di essere oggetto della più alta considerazione: … degni di scoprire il mondo».
Nella scuola dei talenti, grazie alla personalizzazione, che ribadisco con Cominelli non è l’individualizzazione, il parametro per promuovere l’eccellenza non è mai la bocciatura, ma la promozione attraverso la valorizzazione dell’esistente, visibile ed invisibile, che ogni alunno venendo al mondo dispone, sempre, in modo originale, come capitale di base da sviluppare per sé e il bene comune. In altre parole, non si punta all’eccellenza bocciando; si persegue la pro-mozione, anche nel caso della bocciatura, guidando ed accompagnando tutti e ciascuno verso “l’oltre” di ognuno che non appare.
Bocciare è parola presa in prestito dall’esperienza dei giocatori di bocce: è colpire con una violenta bocciata la palla dell’avversario e respingerla lontano dal boccino, che spetta al vincitore. Oggi la scuola “colpisce” chi? Paradossalmente nessuno o quasi. Non perché non respinge, ma perché non promuove. A furia di lasciarsi coinvolgere per anni nell’ideologia dell’egalitarismo, fino a diventarne la prima militante, la scuola oggi, in gran parte, ritiene ancora di avere a che fare o con teste di legno vuote da riempire con il sapere, oppure con “teste ben fatte”, macchine viventi che si auto-costruiscono in base a schemi automaticamente incorporati e geneticamente predefiniti.
Magari non si arriva a parlare di teste di legno vuote o ben fatte. Nell’era delle tecnologie avanzate il modello con cui paragonare e ridurre l’umano è molto più sofisticato. Si parla di cervelli come computer, di intelligenza collettiva, di web umano. Il risultato rischia di essere lo stesso: non si ammette che l’insegnare e l’imparare abbiano come meta, che illumina ogni istante del cammino, la soddisfazione del cuore della persona, che è fondamentalmente “une demande de signification e d’information de plus en plus riche” (Nuttin).
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Molto spesso, nella teoria e nella pratica del “fare scuola”, viene “bocciata” proprio la persona, le cui dimensioni sono respinte sia nella globalità dei suoi fattori sia nella concretezza dei suoi elementi, quando, per esempio, vengono percepite e affermate secondo logiche psicologistiche, pedagogistiche, economicistiche, burocratiche. Dico “in gran parte” e “molto spesso”, perché non mancano le reazioni costruttive e le testimonianze positive. Ci sono docenti e scuole che sanno “colpire” e promuovere eccellenza. Dove? Come? Quando?
In aula, per esempio, quando un insegnante pensa e agisce da persona “spingendo” gli alunni “oltre” il sonnambulismo e l’esuberanza ludica, coinvolgendo chiunque, tenacemente, giorno dopo giorno, nell’avventura della conoscenza del reale. Quando la classe viene guidata a pensarsi ed agire da équipe impegnata in un lavoro culturale, per cui, per esempio, passa dal sistema dell’indifferenza al movimento della compromissione nel lavoro, dalla noia all’interesse, dal bullismo alla stima vicendevole. Più volte, nell’esperienza mia e di tanti colleghi, nella mia e in altre scuole, ho notato che quando il docente “si compromette”, la classe diventa più facilmente un luogo di tutti e di ciascuno, perché tutti, anche quelli che sembrano privi di un centesimo di talento, sono invitati, guidati ed accompagnati a scegliere, ad “osare”, a “spingersi oltre” la combriccola, di cui parla Kierkegaard, per far parte attiva della comunità di apprendimento sperimentando il coraggio e la possibilità di dire: “Io”.
Dunque il paradigma da adottare per coniugare l’eccellere di ogni alunno è personalizzare, cioè fare in modo che tutti e ciascuno si pensino ed agiscano da persona, lavorando non semplicemente per, ma con l’alunno, con questo alunno, cooperando (realmente, non per finta e quietamento burocratico) con gli altri docenti, con i genitori e le altre agenzie educative.
Non è facile, ma è possibile. Certo, non è garantito. L’ora di lezione del docente che pratica l’arte della personalizzazione è l’ora del rischio, ovvero dell’esercizio della libertà e della ragione, impegno paziente di cervello e di cuore. Un simile docente non è Don Chisciotte contro i mulini a vento. È piuttosto simile all’eroe di Sinjavskij dei Pensieri improvvisi: ogni mattina, entrando in classe, sul muro dello statalismo, impastato di burocrazia e sindacalismo, scrive con l’essere, il fare e il dire: «Abbasso la dittatura dell’egalitarismo e del suo compare e padrone, il nichilismo. Viva l’eccellenza della scuola e di ciascuno alunno». Un simile docente ha bisogno del contributo di tutti. Non può essere lasciato solo, misconosciuto, in-distinto, quasi generico impiegato, badante statalizzato delle nuove generazioni.