La democrazia di un paese si vede da come tratta la scuola, è lì il punto di verifica della capacità di uno stato di rinnovare le sue energie creative, di liberare le sue potenzialità. Tanto più in un momento di crisi come quello che sta attraversando l’Italia, l’attenzione al mondo della scuola sarebbe un sintomo della volontà del governo di non arroccarsi a difendere lo status quo, ma di identificare e valorizzare le forze che possono rilanciare la vita di tutto il paese. Qui sta però la grande delusione; non che il governo Berlusconi intenda infierire sulla scuola – lo ha già fatto! – ma quello che è più grave è che prevale un atteggiamento di indifferenza nei suoi confronti. Bisogna tenere in piedi il pachiderma, nulla di più, questo è il giudizio di maggioranza e opposizione. Infatti, di scuola, nella manovra Tremonti se ne parla in modo marginale e solo per aggiustare le prestazioni professionali, allo scopo di eliminare la zavorra, anche se non è chiaro come la si possa snidare e se la supposta zavorra sia reale e non fittizia. In un momento di crisi un paese democratico farebbe in modo del tutto diverso da quello che sta facendo il governo, andrebbe a reperire risorse per rilanciare la scuola, chiederebbe sacrifici a chi è occupato per valorizzare i giovani che si affacciano all’insegnamento. Invece nulla di tutto questo. Vi è una grave e colpevole indifferenza del governo nei confronti della scuola, il che significa rafforzare lo statalismo, proprio il contrario di quello che questo governo aveva promesso di fare. Due sono i sintomi di questa deriva statalista che oggi penalizza sempre più la scuola. Il primo è il blocco di quella che sarebbe la madre di tutte le riforme, ovvero la realizzazione di autonomia e parità. La scuola è sempre più statale; i tagli economici, al posto di sollecitare le scuole perché prendano iniziativa e tentino nuove strade, sono stati il pretesto per inglobare la vita della scuola nella rigida struttura statale, per dettare regole ferree su ogni aspetto della vita scolastica.
Con contraddizioni gravissime, ma su cui si tace tranquillamente, come quella del numero di studenti per classe, che ormai si attesta sulle trenta unità, proprio in un momento storico in cui si è scelto per un apprendimento personalizzato. Il secondo sintomo di uno statalismo dominante riguarda i giovani. Il ministro Gelmini ha deciso di fare una bella selezione, di limitare l’accesso all’abilitazione, a ribadire che è lo stato a scegliere che cosa un giovane farà della sua vita. Non si era mai giunti a tanto nella pur secolare storia dello statalismo in Italia. Vi si arriva oggi sotto il peso della crisi. Anche a questo riguardo vi sarebbe l’occasione per affidarsi alla capacità di iniziativa dei giovani, invece si sceglie di limitarla, di impedire che si sprigioni. Lo stato decide ciò di cui ha bisogno, e poi esclude, togliendo persino la possibilità che un giovane tenti. E con il paternalismo tipico di un autoritarismo: “lo faccio per il tuo bene, non voglio illuderti”. Sono i due sintomi più evidenti di che cosa si stia facendo; la crisi c’è, ma le risorse per la scuola sono poche perché questo governo ha deciso di non puntare sull’educazione, con un’unica conseguenza: un’ulteriore stretta statalista. Il ministro Gelmini deve decidere: o fare la cortigiana del governo Berlusconi e quindi accettare questa grave deriva statalista o difendere la scuola. Difenderla non significa salvare il salvabile, ma promuovere la libertà di educazione, realizzare autonomia e parità, dare ai giovani la possibilità di insegnare. Il ministro se ha a cuore il futuro della scuola deve decidere di combattere la sua battaglia per la libertà. E una scuola libera, in cui le energie creative siano valorizzate, sarà un bene per tutto il paese e contribuirà in modo significativo a uscire dalla crisi.