Ad anno scolastico oramai concluso sono ancora poche le scuole che hanno proceduto ad assegnare il cosiddetto bonus per la valorizzazione del merito della funzione docente. La maggior parte ha però completato la nomina del comitato di valutazione, con il compito di redigere i criteri di assegnazione del fondo aggiuntivo premiale. E qui nasce il punto dolente.
Com’è noto, nella scuola italiana (come nella maggior parte delle amministrazioni pubbliche) il criterio indiscusso che muove ogni azione è quello di non commettere errori che permettano il ricorso ai tribunali amministrativi. Anche il bonus sul merito non si discosta da tale criterio. Il comma 3 della legge 107/2015 (Buona Scuola) infatti stabilisce che i comitati di valutazione debbano tener conto della “qualità dell’insegnamento”, del “contributo al miglioramento dell’istituzione scolastica, nonché del successo formativo e scolastico degli studenti”. Inoltre si parla dei risultati ottenuti per il “potenziamento delle competenze degli alunni”, dell’innovazione didattica e della metodologia e la sempre presente “diffusione di buone pratiche didattiche”. Come fare dunque a stilare criteri oggettivi che vadano a misurare certe azioni che fanno riferimento quasi completamente alla realtà immateriale?
La maggior parte dei dirigenti scolastici non si è fatta ingannare. I criteri e le griglie di valutazione vanno a garantire l’oggettività e la misurabilità, per cui tutto ciò che poteva essere sospettato di soggettività e arbitrarietà è stato escluso. Ma come si fa a misurare il potenziamento della competenze, oppure il successo formativo e scolastico? Una classe è buona se gli studenti sono tutti promossi, se sono contenti, se collaborano con i docenti? La strada era veramente in salita, irta di ostacoli con all’orizzonte le grigie aule dei tribunali. E allora nei criteri di valutazione hanno prevalso i dati documentabili, come la partecipazione ai progetti ministeriali, degli enti locali, d’istituto, a quelli proposti dai consigli di classe o chi ha coordinato le visite d’istruzione. Oppure verrà premiato chi si è impegnato nell’organizzazione interna, come i vari coordinatori, di commissioni, dipartimenti, funzioni strumentali (tra l’altro già remunerate), uffici tecnici, fondi europei, corsi di recupero e chi più ne ha, più ne metta.
Certe scuole hanno anche introdotto il “questionario di gradimento del docente” somministrato ad alunni e genitori per valutare il livello della docenza. Un docente su un quotidiano ha scritto: “Nella mia scuola, non ho incarichi extra aula e non ho partecipato a progetti, spesso altisonanti, ma poco efficaci. Curo molto il rapporto con gli studenti (…), correggo e verifico i compiti assegnati, mi preoccupo di motivarli e dialogo molto con loro, tanto che ho recuperato due ragazzi che volevano abbandonare a metà anno. Quando c’è necessità telefono alle famiglie (…). Insomma per me la scuola è una cosa seria che mette a confronto un adulto con un gruppo di adolescenti e il punto per me è far vedere loro che ne vale la pena provarci, rispondere a cosa propone la vita. Certo così facendo, non otterrò il bonus che valorizza il merito, ma chi ritiene che sia più importante coordinare un progetto, che stare in classe, penso che abbia le idee poco chiare su cosa voglia dire fare scuola (…)”.
La testimonianza è significativa e dice come l’educazione sia stata completamente espulsa dalla scuola statale italiana. La logica amministrativa prevalente ha oramai trasformato l’istruzione in una scuola di carta che premia solo coloro che usano il “didattichese” ministeriale. Ora con la prima attribuzione del merito il rischio che tutta quella parte dei docenti che quotidianamente si impegnano a far sì che i loro studenti diventino uomini e donne consapevoli, istruiti e capaci di saper usare le conoscenze acquisite, si sentano poco valorizzate e tirino i remi in barca. Una catastrofe da evitare.