Tra i luoghi più fittamente abitati e altamente civilizzati, l’isola di Manhattan è uno dei più belli del pianeta. Per questo è amata dai fotografi che si spostano per la baia, alla ricerca dello skyline più suggestivo. Eppure a scatenare le più ardite elucubrazioni estetiche del terzo millennio, non sono state le Torri del World Trade Center nel pieno del loro fulgore, bensì gli osceni attentati terroristici, con il loro scempio materiale e di vite umane, elevati dai moderni teorici del sublime al rango di una performance artistica. Benvenuti nell’era della Violent Beauty: la sublime violenza della contemporaneità.
Ad usum populi, tra cui il sottoscritto, Renato Guttuso (1911-1987), che, detto per inciso, non vi aderiva per nulla, aveva reso l’idea di cosa fosse una performance artistica utilizzando la metafora della scia di un motoscafo nel golfo di Napoli a Mergellina. Un’opera illusoria, evanescente e impalpabile, che si consuma nel palpito di un’emozione. Con tutto ciò, neppure Guttuso aveva previsto la deriva di questa corrente, che l’avrebbe portata a includere nel sublime e nel suo correlato psichico – lo stupor(e) – anche il crimine.
Il 12 settembre 2001 una tra le prime voci a elevarsi oltre il dato bruto della devastazione e dei cadaveri fu quella di Karlheinz Stokausen (1928-2007), che ne parlò come “della più grande opera d’arte (luciferina, com’ebbe a precisare) possibile nell’intero cosmo”. Precisazione teologica a parte, la frase di Stokausen fu quella di un’esteta innamorato di una teoria: la fine dell’arte e la performance come unica forma possibile per l’arte post-moderna, non essendo plausibile che il musicista viennese non ricordasse, che so io, le immagini del fungo dell’atomica su Hiroshima, o dell’orrendo spettacolo di Auschwitz. Entrambe “opere d’arte” che non fecero al caso suo, in quanto precedenti la teoria dell’arte post-moderna, che data anni 60, made in Usa.
A una manciata di ore dall’osceno attentato e dalla diffusione “virale” delle immagini dei due aerei che penetrano le Torri, il fotografo newyorkese Joel Mejerowitz inizia il suo rito operoso, per esorcizzare la tragedia e per tentare di ricucire la lacerazione del senso storico, di cui la lacerazione dell’immagine di Manhattan non è che una pallida metafora. Mejerowitz è stato l’unico fotografo ammesso nel “cratere” di Ground Zero dove si è recato tutti i giorni, per nove mesi, realizzando gli 8000 scatti che assieme ai numerosi reperti archiviati rappresentano una parte importante della National September 11 Memorial & Museum Foundation.
Sul finire della sua impresa – il fotografo lo racconta in un’intervista rilasciata a Milano (Tracce n.1, 2014) in occasione di un’importante mostra – Mejerowitz è colto da un dubbio angosciante: “ma sono pazzo?”. Il cratere gli appare bellissimo, l’immenso cimitero di una guerra scatenata su migliaia di civili gli pare redento“dallo stupore e dalla bellezza”.
“Ground Zero era diventato bello perché quel che c’era era diventato Natura. Il sole che sorgeva al mattino, la nebbia … gli arcobaleni … io guardavo e fotografavo tutto, perchè era bello…Era il Sublime”. “A Ground Zero, quando la forza di gravità ha avuto la meglio sulle torri, è accaduto un nuovo tipo di sublime che nasce da una bellezza terribile… un sublime contemporaneo”. Il senso di pace che Mejerowitz si è conquistato con un duro lavoro quotidiano, contrastando l’angoscia paralizzante del terrore, lo assegna all’impersonale sublime. Un “inchino” alla grandezza della Natura che mette a comun denominatore Ground Zero con Pompei: “Mi imbattevo tutti i giorni negli oggetti volati fuori dagli edifici… cose che tenevano nella loro postazione di lavoro. Molti li ho conservati e li ho dati al museo. Ora hanno una collezione di artefatti un po’ come a Pompei”.
Ma cosa significhi sublimare l’orrore nello stupore fino a farne uno stupefacente ideale dell’io, lo cogliamo con maggior nitidezza nelle parole di Giovanni Gastel, il più noto fotografo di moda italiano, ospite di Nicola Porro in una puntata del Contagio delle idee. Mentre sugli schermi si susseguono le immagini di modelle levigate e di attrici di fama internazionale, la conversazione fluisce, gradevolissima, fino alla comparsa di un elemento distonico, la controversa foto, Premio Pulitzer 1994, di Kevin Carter, morto suicida due mesi dopo (particolare taciuto da Porro e ignorato da Gastel). Una bambina di 4 anni, nel pieno della carestia del Sudan, si accovaccia a terra sfinita. È sola. Alla sue spalle un avvoltoio la osserva, anche il fotografo (a pochi passi) la osserva, in attesa dell’inquadratura migliore. Poi scatta e se ne va. Sublime! Aggettiva, d’acchito, Gastel: “Terribile, ma sublime!”. The show must go on e i due tornano al gossip, alle avances fatte o ricevute dal celebre fotografo, che dopo una debole protesta a tutela della privacy delle sue bellissime (e potentissime) clienti, elargisce al pubblico un paio di chicche fetish. Al termine di un servizio fotografico, Marpessa H. si congeda dal suo cavalier servente omaggiandolo delle mutande, che si sfila lì per lì. Un trofeo fetish da collezionare assieme alla mela che ha delicatamente velato il pube di Belen, novella Eva per un altro servizio. I collaboratori di Gastel l’hanno conservata, adoranti, per quattro settimane, mentre delle mutande di Marpessa si sono perse le tracce. Il conduttore, estasiato, non riesce più a farsi presente nel dialogo. Tutto gli appare sublime, le mutande di Marpessa e la mela di Belen, il condor e la bambina, le Torri Gemelle e l’antica Pompei…
Davvero “dal sublime al ridicolo il passo è breve” (Napoleone Bonaparte).