Nel suo nuovo libro Il mistero delle cose, Massimo Recalcati si sofferma su una piccola opera di Alberto Burri, un Autoritratto del 1952, di appena 10 cm per otto (anche le dimensioni sono emblematiche…). “Una tavoletta”, annota Recalcati, “costruita come una sorta di scatola cinese dove l’Io dell’artista sembra essere ridotto a un rettangolo minimo collocato al centro del degradare progressivo delle cornici”.
Un rettangolo minimo: Burri mostra di avere un’autocoscienza precisa di sé come artista. O meglio, di aver chiara l’idea che dopo la ubriacatura narcisistica di tanto 900 (che ebbe in tanti casi esiti rivoluzionari e potenti: prendete Picasso) era venuta l’ora di mettere le briglie all’io. Non era certo il solo ad aver intuito che quella era una strettoia necessaria e che non portava affatto al silenzio. Annotava ad esempio Mark Rothko nei suoi Scritti sull’arte: “Non ho mai pensato che dipingere abbia niente a che vedere con l’espressione di sé. È una comunicazione sul mondo a qualcun altro… Ogni insegnamento incentrato sull’espressione di sé in arte è sbagliato e ha a che vedere piuttosto con la terapia. Conoscere se stessi è prezioso affinché il sé possa essere rimosso dal processo”.
Ma perché l’io doveva fare un passo indietro? A cosa doveva lasciare spazio? Alla pittura come evento e come forma di rivelazione, risponde Recalcati. E il suo libro è appunto un’indagine sulle forme con cui questa rivelazione è accaduta dentro l’avventura creativa di nove artisti del nostro tempo, tutti italiani. Naturalmente c’è anche un orizzonte storico da tenere presente. Così quando si dice “pittura” ci si riferisce ad una forma espressiva che va oltre agli orizzonti tradizionali della tela (come dice Recalcati, sempre a proposito di Burri, “comporta abbandonare la colonna d’Ercole del quadro come finestra sul mondo”). La pittura ha dovuto infatti fare i conti con la sentenza senza appello di Marcel Duchamp che aveva sancito la fine dell’arte concepita come esperienza “retinica”. In sostanza la pittura avrebbe potuto continuare ad avere luogo solo se si fosse liberata radicalmente dalla tentazione illustrativa. Altrimenti per l’arte sarebbe rimasto solo l’orizzonte del concettuale (niente più forme, solo percorsi di idee) o della riduzione minimalista (una lingua portata alle soglie del silenzio). Il rapporto con l’assoluto che è dentro il destino della pittura, che ne è al fondo la sua ragion d’essere, come può prendere forma e visibilità dopo quel giudizio non eludibile di Duchamp?
La condizione è che l’opera abbia una sua “trascendenza interna”. “L’evento dell’opera d’arte”, scrive Recalcati, “vive solo della sua immanenza anti-illustrativa… il suo evento è aldilà di ogni riferimento ad esso esterno”. “Io dipingo la pittura”, ripeteva sempre Morandi a chi cercava significati nei suoi quadri. Ma non era un vezzo, né un modo di evadere la questione. Era un modo per dire che il quadro è un luogo in cui la pittura “accade”, e accadendo stabilisce un ponte verso “il mistero delle cose” (come dice Yannis Kounellis, affermazione che ha dato il titolo al libro).
L’accadere è dunque l’invisibile che si rende visibile; che usa la natura e l’inclinazione di questi artisti rimasti irriducibilmente attaccati al potere della pittura, per palesarsi. Perché, scrive Recalcati, “l’invisibile non è platonicamente ciò che si sottrae al visibile ma è il reale come eccesso”. Un’idea che è eredità evidente del cristianesimo, dove Dio si fa visibile e prende un corpo, diventa in un certo senso rappresentabile (la grandezza dell’arte occidentale scaturisce tutta da qui…). Ma la rappresentazione è tradita, è in un certo senso annullata, se non fa i conti con il mistero; se non lo contiene. Questo accade anche in Bill Congdon, uno dei nove artisti sui quali Recalcati ha sviluppato il suo percorso, quando torna ripetutamente, quasi in modo seriale, sulla Crocifissione non per rappresentare quel soggetto, ma perché quel soggetto è l’unico che “esprime l’impossibilità di esprimere l’inesprimibile”. Per questo l’immagine nelle opere di Congdon via via si scarnifica, si riduce a macchia; la materia fa quasi corpo con il soggetto. Perché la sua ragion d’essere, scrive Recalcati, è quella di “indicare nel visibile un’eccedenza che lo oltrepassa”.
C’è n’è abbastanza per intuire quanto ci sia bisogno oggi di “pittura” e quanti spazi si aprano per chi voglia provare a raccoglierne la sfida.