La moderna capacità di indagine permette le analisi più sorprendenti e apparentemente strane. È il caso del lavoro realizzato nei mesi passati da una équipe franco-americana guidata da Isabelle Kruta, del Museo di Storia Naturale di Parigi, all’European Syncrotron Radiation Facility di Grenoble, un centro di ricerca attivo ormai dal 1994, che vede la compartecipazione di 19 Stati Europei, fra cui l’Italia con un ruolo rilevante (è il terzo finanziatore dietro Germania e Francia).
Il cuore della tecnologia dell’ESRF si basa sul fenomeno fisico che va sotto il nome di radiazione di sincrotrone, ovvero la radiazione emessa da una carica in accelerazione. La fisica ci dice che il moto circolare è sempre accelerato: all’ESRF si fanno perciò correre fasci di elettroni (particelle elettriche cariche) in una struttura ad anello di grandi dimensioni (268 metri di diametro per una circonferenza di 844).
Sotto particolari condizioni si riescono a generare fasci coerenti di radiazione ad alta energia. Lo scopo di questo enorme strumento è la generazione di un laser a raggi X. La caratteristica principale dei raggi X è di avere lunghezza d’onda molto piccola (da 0,01 a 10 1 nanometri): sono perciò molto energetici e quindi molto penetranti. Il vantaggio di un laser di questo tipo è che -essendo composto di radiazione a lunghezza d’onda molto ridotta- riesce ad analizzare dettagli minutissimi, anche nanoscopici.
In pratica un anello come quello di ESRF è un microscopio potentissimo, che permette tramite un’analisi non invasiva di ricostruire in 3D immagini di oggetti anche di dimensioni molecolari. Non sarà sicuramente maneggevole, ma è incredibilmente efficace. Ad esso sono perciò interessati ricercatori industriali, ottici, scienziati dei materiali, medici, biologi e, appunto da qualche tempo, anche paleontologi.
Il team guidato da Isabelle Kruta si è interessato dell’analisi di uno dei fossili più conosciuti e diffusi, l’ammonite, per cercare di ricostruire dettagli ancora sconosciuti di questo cefalopode vissuto in tutti gli oceani del mondo per 350 milioni di anni prima di scomparire insieme ai dinosauri, intorno a 65 milioni di anni fa.
La specie presa in considerazione dal gruppo franco-americano è la baculite, che si differenzia dalla normale ammonite per la forma della sua conchiglia: invece di essere avviluppata in un numero più o meno ampio di volute, come l’ancora esistente Nautilus – animale analogo ma più grande e con abitudini alimentari sicuramente differenti da quelle dei suoi predecessori – essa si presenta lunga e dritta, larga a un estremo dal quale uscivano i tentacoli e appuntita all’estremo opposto.
L’analisi all’ESRF di tre campioni fossili rinvenuti a Belle Fourche, in Sud Dakota, sito rinomato per l’eccellente conservazione dei fossili, ha rivelato dettagli sconosciuti relativi alla forma della bocca degli antichi cefalopodi. Sono infatti state osservate e ricostruite in 3D per la prima volta le mandibole della baculite e strutture sconosciute simili a delle specie di lingue chiamate “radula”. Le radule hanno dimensioni di 2-3 millimetri. Ma la vera sorpresa è stata la scoperta di tracce dell’“ultima cena” all’interno di uno dei tre fossili. La collezione di immagini è importante per quello che può dire sulle abitudini alimentari di questi invertebrati marini preistorici. «Le ammoniti sono fossili conosciuti da tutti, ma in realtà abbiamo pochissimi dati sugli animali in sé: abbiamo le loro conchiglie, ma di cosa ci fosse all’interno di esse finora si sono fatte solo speculazioni», conferma Isabelle Kruta.
In più, non essendoci un analogo “moderno” di un animale come l’ammonite, resta poco chiara la sua posizione nella antica catena alimentare. Ora, grazie all’analisi della Kruta e dei suoi collaboratori, sappiamo che la baculite si nutriva di piccoli organismi sospesi in acqua, come zooplancton, piccoli crostacei e addirittura altre piccole ammoniti, e si serviva delle sue mandibole e delle radule, che erano ricoperte di denti, per sminuzzarli.
Il team ritiene che proprio una dieta a base di plancton potrebbe spiegare la repentina scomparsa di un organismo come le ammoniti, capaci di prosperare per 350 milioni di anni: assumendo infatti come vera l’ipotesi che la scomparsa dei dinosauri sia dovuta all’impatto di un grosso asteroide con la Terra, è ragionevole pensare che un evento di questo tipo abbia potuto modificare sostanzialmente la produzione di plancton negli oceani, ponendo nuove e drammatiche condizioni di vita per i cefalopodi.
Da un segno così piccolo, dunque, si potrebbe riuscire a ricostruire non solo ambienti e abitudini degli animali vissuti sul nostro pianeta milioni di anni fa, ma anche eventi drammatici e cambiamenti inaspettati, permettendo una ricostruzione sempre più accurata e certa della storia del nostro pianeta. Siamo solo all’inizio di questa nuova possibilità di studi: lo scenario appare incredibilmente promettente e affascinante.