La scorsa settimana si è tenuto a Roma, organizzato dalla Congregazione per l’educazione cattolica, un convegno internazionale che ha visto oltre duemila partecipanti provenienti, secondo quanto detto dagli organizzatori, da più di ottanta paesi: a prima vista, moltissimi, se non la maggioranza, provenienti dall’Africa, dall’Asia, dall’America Latina. Molti sacerdoti, suore e frati, ma anche molti laici; un’età media confortevolmente bassa, che lascia sperare in un futuro di impegno educativo e non solo di rimpianto per il bei tempi andati. La storia del convegno viene da lontano, dal suggerimento di Benedetto XVI di ricordare il 50° della dichiarazione consiliare Gravissimum educationis (1965) e, contemporaneamente, i venticinque anni della Costituzione Apostolica Ex corde Ecclesiae (1990). L’emergenza educativa è stata anche all’origine della scelta di proclamare nel 2008 l’educazione una priorità per la Chiesa italiana, proclama a cui peraltro è stato dato poco seguito.
Anche il convegno, che pure ha comportato un enorme lavoro di preparazione, con la stesura di un Instrumentum laboris elaborato in base ai suggerimenti di associazioni, istituzioni, scuole e singoli e i cui risultati sono stati presentati a Roma, ha avuto a mio avviso, non so se per scelta di basso profilo o per scarsa capacità di comunicazione, una risonanza molto minore di quanto avrebbero comportato l’importanza del tema e l’ampiezza e la vivacità della partecipazione. I punti fondamentali emersi dal lavoro preparatorio, e discussi sia in plenaria che nei gruppi (scuola e università) sono stati quattro: identità e missione delle scuole cattoliche (una realtà importante, come ha ricordato nella sua relazione il nuovo prefetto della Congregazione, il cardinale Versaldi: oltre 200mila scuole e più di 1900 istituzioni universitarie, con quasi settanta milioni di studenti); soggetti educanti; la formazione dei formatori e infine le sfide attuali e future. Pur non sottovalutando il problema del finanziamento, sia il cardinale che monsignor Zani, segretario delle medesima congregazione, hanno insistito sull’identità della scuola cattolica e sulla centralità del progetto educativo, inteso come servizio culturale consapevole che mira allo sviluppo integrale della persona e alla sua crescita nella fede.
Il momento più significativo del convegno è stato, io credo, l’incontro con papa Francesco, preceduto da una serie di testimonianze per lo più congruenti con il tema, e oggetto come sempre di un tifo da stadio. Papa Francesco ha esordito citando “un importante educatore cattolico” secondo cui “educare è introdurre alla totalità della vita” (e ritengo che a molti lettori del sussidiario venga spontaneo citare un nome), in quanto “non si può parlare di educazione senza parlare di vita”. L’educazione deve tenere presenti tre aspetti: la testa, il cuore, le mani, conoscere, amare e fare, tre linguaggi in armonia e non in opposizione.
Il problema più grande, ha continuato il papa in risposta alle domande che gli sono state poste, è la rottura del patto educativo e sociale, per cui oggi molta parte della scuola seleziona ed esclude tenendo conto solo del criterio della “testa” e non della persona nella sua totalità: valori, concetti e abitudini. Educare significa rischiare, anche se ogni educatore deve assumersi un rischio consapevole: in un simpatico esempio, il papa ha ricordato che per imparare a camminare il bambino deve tenere una gamba ferma, piantata per terra sul terreno del passato, e muovere l’altra in avanti, verso la novità e il cambiamento: così se perde l’equilibrio può tornare sul sicuro e riprovare… La tentazione mortale dell’educatore è quella di “educare dentro i muri”, anziché prendere per mano, e portare tutti — tutti — fin dove possono arrivare. L’altro rischio è la rigidità formale, che deve essere sostituita da una “informalità rispettosa” che valorizzi l’umanità di chi viene educato, perché, ha concluso Francesco, dove non si valorizza l’umanità non può entrare Cristo.
Un messaggio importante, che fonda le molte indicazioni anche operative emerse dai lavori del convegno, su cui magari tornerò in un’altra occasione, almeno per il gruppo cui ho partecipato io, e che fa finalmente passare in secondo piano il tempo perso ad accapigliarci sulle graduatorie e sui dettagli della Buona Scuola. La scuola è buona non se è efficiente o moderna, ma se è una scuola per l’uomo, con i suoi bisogni che variano a seconda del contesto, dell’età, della cultura di appartenenza; ma soprattutto se è scuola per la domanda di senso e di verità che resta sempre nel suo cuore.