Secondo un’indagine del ministero dell’Istruzione sono 40mila i bambini dai 3 ai 5 anni (erano 27mila solo tre anni fa) che rischiano giornate da teledipendenti. Liste d’attesa, mancanza di docenti le cause che sembrano essere dietro la crisi della scuola materna, quel fiore all’occhiello del sistema educativo italiano che ha cresciuto centinaia di migliaia di bambini seguendo metodi pedagogico-didattici di grande importanza nella storia della scuola. E per una volta tanto, i disservizi accomunano nord e sud, anche se per ragioni differenti. Al nord la crisi è causata dalla ripresa del tasso di natalità degli ultimi anni (complessivamente 100mila nascite in più fra il 2006 e il 2011) data, anche e soprattutto, dalla forte presenza di immigrati, mentre in meridione è la cronica mancanza di fondi a escludere centinaia di migliaia di piccoli allievi dalle scuole materne. Abbiamo chiesto un parere per IlSussidiario.net a Felice Crema docente di Storia dell’educazione nell’Università Cattolica di Milano.
Visti questi dati, si può dire che si è tornati indietro di 50 o 60 anni quando i genitori erano costretti a lunghe file davanti alle materne per poter iscrivere i figli?
La scuola materna rischia di diventare non più un diritto ma un esperienza del tutto accessoria o un fatto di comodo per i genitori che lavorano? Non mi sembra. Viste le cifre non si può parlare di un’inversione di tendenza. I numeri riportati rappresentano solo una piccola percentuale (circa il 2%) di coloro che frequentano la scuola dell’infanzia, che sono quasi 1.700.000. Mi sembra si debba piuttosto parlare di un problema legato a mutamenti nella collocazione della domanda del servizio oltre che nella sua composizione. L’evoluzione della natalità, ma anche gli spostamenti migratori, determino una eccedenza dell’offerta in alcune aree (scuole sottoutilizzate) e una carenza in altre. Il fatto significativo è che si cerca di dare una risposta a questo fatto non sostenendo l’intero sistema delle scuola dell’infanzia ma facendo leva esclusivamente su quella parte – la scuola gestita dalla pubblica amministrazione (Stato ma anche Comuni) – strutturalmente più rigida, sotto il profilo normativo e organizzativo, e quindi meno in grado di offrire risposte in tempi ragionevoli anche a causa delle procedure che devono essere seguite per intervenire. Inoltre gli istituti di questo tipo tendono a sviluppare modelli uguali in tutta Italia, mentre quella parte del sistema scolastico, impropriamente chiamato “privato”, ha saputo, ieri come oggi, interpretare con grande professionalità condizioni ed esigenze dei diversi territori.
Ma allora si sta andando verso la “privatizzazione” del servizio? Occorre frequentare una privata perché sia l’istruzione garantita e di qualità?
Dal punto di vista economico non si vuole riconoscere che il servizio gestito da Amministrazioni pubbliche è spesso inefficiente. I costi sostenuti da un ente pubblico per ogni singolo bambino sono più alti del 30-40% rispetto a quelli presenti nelle scuole a gestione privata. Se non altro per questo, in un momento di carenza di risorse, sembrerebbe più razionale sostenere il privato che desidera farsi carico di una risposta al bisogno di tutti: la prassi sembra invece andare in direzione opposta, ad esempio riducendo i già inadeguati stanziamenti previsti, e mettendo in gravi difficoltà gli istituti a gestione privata. Sembra non si pensi che, se questi ultimi chiudessero, lo Stato, per coprire il servizio lasciato scoperto, dovrebbe pagare cifre enormemente superiori a quelle che si rifiuta di stanziare. Questo non significa in alcun modo “privatizzare” il servizio, perché la Costituzione italiana dice chiaramente che il servizio pubblico della scuola può essere gestito, oltre che dallo Stato, anche da enti o privati. La legge istitutiva della scuola dell’infanzia statale, di cui nel 2014 ricorrerà il cinquantenario, accoglie questo principio riconoscendo che il sistema delle scuole dell’infanzia (allora si chiamavano materne) si è costituito come sistema proprio ad opera di enti e privati e prima dell’intervento dello Stato, arrivando a coprire tutto il territorio nazionale. Alla fine del secolo scorso il riconoscimento del carattere “pubblico” delle scuole, a prescindere dalla modalità di gestione, veniva esteso a tutte le scuole attraverso l’istituto della parità.
Tempo fa gli asili, gestiti per la maggior parte da religiosi, erano gratuiti e accoglievano tutti. Cosa è cambiato?
Come ho appena ricordato, fino agli anni 60 del secolo scorso non esisteva in Italia una scuola materna statale ma erano presenti molte iniziative di privati – e i comuni erano in prima fila – sostenute pedagogicamente e operativamente dall’azione di moltissimi ordini religiosi. Ciò aveva permesso il costituirsi di un sistema di scuole materne, diffuso su tutto il territorio nazionale a partire da un rapporto diretto con la domanda di aiuto espressa dai genitori. L’equilibrio del sistema si incrinò subito dopo la seconda guerra mondiale a seguito del movimento della popolazione dalla campagna alle città.
Si spieghi, professore.
Questo fenomeno ebbe in molti casi carattere esplosivo (penso alla nascita delle periferie di Roma, Torino o di Milano) e diede vita ad agglomerati senza un tessuto comunitario sufficientemente forte per esprimere una iniziativa per la creazione di una scuola. Questa situazione ha motivato l’inserimento dello Stato in un sistema che aveva già saputo dare risposte concrete ed era già stato in grado di elaborare quella prospettiva pedagogica che ha prodotto la scuola dell’infanzia “migliore del mondo” che nasce quindi dall’impegno istituzionalmente libero e in continuo confronto con la domanda, e non da un ufficio burocratico o da una commissione di esperti! Ma questo è stato dimenticato. L’intervento dello Stato da integrativo è diventato asse portante della risposta che la comunità sociale chiede come aiuto nell’educazione dell’infanzia, e questa scelta ha trascinato con se tanti problemi, non ultimo quello della gestione dell’organico degli insegnanti regolato ancora oggi, nella scuola a gestione statale, da norme ottocentesche.
Ma l’educazione scolastica è veramente decisiva nei primi anni di vita del bambino?
E’ certamente importante anche se deve sempre essere intesa come complemento dell’educazione familiare. L’idea, oggi largamente diffusa, che l’educazione scolastica, in particolare nell’infanzia, sia qualitativamente superiore a quella familiare non trova riscontro nei fatti. Anzi è sempre più evidente che la scuola, per svolgere efficacemente il proprio compito, deve rappresentare solo uno degli elementi che definiscono il mondo del bambino e che occorre intervenire, ad esempio sulla legislazione del lavoro, per rafforzare la presenza effettiva nel vissuto del bambino di un contesto familiare in grado di sostenere la sua crescita, non solo affettiva ma anche cognitiva. Tra questi due aspetti non c’è infatti, nell’esperienza del bambino, separazione. Ma anche chiede una diversa disponibilità, da parte di genitori e insegnanti, a confrontarsi “alla pari” per meglio definire l’orizzonte di significato dentro cui il bambino è chiamato a vivere, e a partire dal quale muoverà per prendere le decisioni che segneranno la sua vita.
Lo Stato ha perduto su tutta la linea, dunque.
Oltre che sulla già richiamata maggiore efficienza economica – indispensabile peraltro in questo momento di lunga e profonda crisi del modello su cui si è retta l’economia del nostro Paese – il modello organizzativo proposto dalle scuole autonome dell’infanzia propone vantaggi molto significativi anche sotto il profilo pedagogico-didattico. La domanda allora è: perché tanti usano dei problemi veri, come l’esigenza di dare risposta alla domanda di alcune migliaia di famiglie, per incrementare un modello, quello della scuola gestita dallo Stato (quella che una volta si chiamava correttamente “scuola governativa”) poco efficiente, in alcuni casi poco efficace, che anzi, per certi aspetti, concorre non a risolvere ma a creare i problemi? Penso che sia facile a ciascuno dare la risposta.
(Federica Ghizzardi)