C’è la scuola dei grandi e dispendiosi progetti, magari dedicati a tematiche realmente gravi e irrinunciabili — la legalità, il bullismo — ma troppo spesso pensati solo per dare vita a grandiose e dispendiose manifestazioni conclusive, appaltate sempre alle solite associazioni. C’è poi la scuola dei contratti e delle contrattazioni, di regolamenti e rivendicazioni, di performances, corsi, graduatorie e ricorsi. E c’è, ancora, la vita quotidiana, in classe, a volte ricca di esperienze umanamente e didatticamente innovative, ma che si chiude spesso alle spalle la porta dell’aula, e che poco vuole sapere (e poco rischia di incidere) su tutto il resto. Talvolta, però, le cose vanno diversamente, e questi mondi s’incontrano.
È accaduto tra febbraio e marzo, in Sicilia, dove un gruppo di docenti hanno pensato e realizzato un convegno decisamente originale, fin nelle modalità di svolgimento: quattro appuntamenti (relazione di partenza, workshops e dibattito); una sede principale, Catania, con Ragusa e Palermo collegati in diretta streaming; 83 partecipanti. Un’organizzazione complessa, realizzata grazie alla collaborazione di un team di alcuni docenti e di diversi soggetti: Diesse, Uciim e tre Fondazioni: “per la Sussidiarietà”, “Sant’Orsola” e “Domenico Sanfilippo Editore”.
Da dove sia nata l’idea ce lo dice Teresa Scacciante, docente di italiano e storia in un istituto tecnico della città etnea, responsabile del convegno. “Negli ultimi anni, con la legge 107/15, c’è stata una caccia anche indiscriminata alle opportunità formative. Era raro, però, trovare proposte che non si limitassero agli aspetti tecnici dell’insegnamento e ne toccassero, invece, i nervi scoperti. Noi ci abbiamo provato”.
Quali siano questi nervi scoperti, la professoressa Scacciante lo ha ben chiaro. “La scuola di oggi è malata e spesso si presenta inadeguata al bisogno di conoscenza dei giovani. Ci siamo chiesti: cos’è la conoscenza per un nativo digitale del XXI secolo? Quando essa è realmente significativa e capace di aiutare i ragazzi ad uscire dalla confusione e dal torpore in cui spesso sembrano impantanati? E ancora: quale interazione può e deve realizzarsi tra questo tipo di conoscenza e le competenze richieste ai vari livelli del percorso di formazione? E cosa ci chiede il turbinoso progresso tecnologico? Nell’affrontare questi interrogativi, una cosa ci era chiara fin dall’inizio: prima ancora dei ragazzi, essi chiamano in causa proprio noi insegnanti”.
Eppure sociologi, psicologi e maîtres à penser di ogni tipo si affannano a dire che la scuola non ha più presa perché sono i giovani ad essere cambiati: sono apatici, privi di passioni, incapaci di impegno e sacrificio… “Non sono d’accordo. Lo ripeto: la questione va ribaltata e riguarda noi adulti. Apatia, disimpegno sono l’espressione di una ‘sfida’ dei nostri alunni a indicare loro un significato per cui valga la pena alzarsi, studiare, impegnarsi; allo stesso tempo ci dicono — ed è una buona notizia — che la loro umanità, seppur fragile, aspetta che qualcuno sappia guidarli. La trasmissione della cultura e la crescita della persona possono avvenire solo tramite insegnanti che non abbiano smesso per sé la ricerca del sapere, e per questo siano in grado di provocare l’io dei ragazzi e di appassionarli. Non c’è apprendimento — e non c’è vera competenza — senza la comprensione di ciò che si studia. Un bambino, o un ragazzo, acquisisce una competenza quando collega una conoscenza a un contesto, a un’abilità, cioè quando la fa propria, quando ne fa esperienza”.
Questa intuizione, come è divenuta operativa all’interno del corso? “Due soli esempi: abbiamo dato largo spazio ad alcuni modi di conoscere più adeguati al contesto odierno, tra cui la didattica laboratoriale, che non è la riscossa della ‘pratica’ rispetto alla teoria, ma una scoperta del sapere che avviene insieme agli alunni. E poi non ci siamo sottratti alla travolgente provocazione dell’infosfera, della tecnologia e dell’industria 4.0. Il tutto con relatori d’eccezione, impegnati in prima linea nella scuola e nella formazione”.
Quattro giorni di duro lavoro, insomma. “Beh, certamente l’impegno richiesto ai partecipanti è stato notevole, ma il clima è stato di un’operosità condivisa e cordiale: e poi, ad alleviare la fatica ci sono stati i golosi coffee-break e i preziosi intermezzi musicali offerti dagli strumentisti del Liceo musicale che ci ha ospitato. Alla fine di ogni appuntamento, dopo quattro ore davvero impegnative, eravamo ancora tutti presenti, nessuno era sgattaiolato via!”.
Un vero successo. Tutte le domande hanno avuto risposta? “Assolutamente no! Scopo del convegno non era rispondere ad alcune domande e archiviarle, bensì avviare una riflessione e un ulteriore lavoro. In realtà, appena concluso il convegno molti corsisti hanno chiesto di poter continuare il confronto, dopo aver iniziato a paragonare le nuove acquisizioni con l’esperienza quotidiana: è quello che faremo. D’altronde, c’è in gioco non solo il nostro lavoro ma la nostra stessa vita: molti insegnanti oggi soffrono di solitudine e di scoramento di fronte a certe sfide, non solo culturali. Mantenere, da soli, la passione, alla lunga, non è possibile”.