Qualche giorno fa ho accompagnato un gruppo di studenti universitari a visitare il Museo del Turismo di Merano (ufficialmente denominato Touriseum), dove si racconta la storia del turismo tirolese, una delle aree a maggiore intensità turistica delle nostre Alpi. Un pannello riferisce una affermazione del vescovo di Bressanone, agli inizi del secolo scorso, che recita «chi è favorevole al movimento turistico vuole la rovina morale della regione». Accanto è riportato l’invito dei “Comitati d’ abbellimento tirolesi”, probabilmente una delle prime forme di organizzazione turistica locale, che afferma «il ritorno annuale dei forestieri deve essere per noi fonte di vera gioia».
Il contrasto delle posizioni colpisce: interpretarlo solo come il contrapporsi di un interesse economico-commerciale (quello dei comitati, che senza dubbio dal turismo cominciavano a trarre benefici economici) ad una sana difesa dell’integrità morale di un popolo, minacciata dalla crescente commistione di culture e di comportamenti, mi pare tuttavia riduttivo. È un fatto che la gerarchia cattolica abbia nel passato guardato al turismo come ad una fonte pericolosa di inquinamento dell’identità culturale della popolazione ospitante e abbia fatto il possibile, se non per evitarlo, quanto meno per non incoraggiarlo; senza andare lontano, la storia turistica di Bergamo, territorio dalla forte tradizione cattolica, ha risentito sensibilmente di questa preoccupazione. Oggi, in un contesto di globalizzazione non solo mediatica, non è più così, tanto è vero che il titolo del messaggio vaticano nella Giornata Mondiale del Turismo del 2006 afferma che «la ricchezza del turismo consiste nel porsi in relazione con l’altro». Un messaggio che sembra molto più in sintonia con la “gioia” evocata dai comitati di abbellimento tirolesi che con la preoccupazione del vescovo di Bressanone.
Al di là dell’interpretazione di vicende ormai lontane nel tempo, il confronto delle due posizioni suggerisce un interrogativo, ancora attuale e pertinente anche nel contesto odierno. Posto che il turismo è sempre un incontro tra diversità, quella della popolazione ospitante e quella del visitatore, poco o tanto diversi a seconda della distanza e delle radici culturali, perché mai si deve partire dal timore che quella del visitatore debba essere invadente e debba condizionare e influenzare negativamente l’identità culturale dell’ospitante? Perché non prevedere anche la possibilità che dall’incontro scaturisca un dialogo reciprocamente fruttuoso e che l’ospitante possa ricevere stimoli positivi o possa avere l’opportunità di confrontarsi con orizzonti culturali prima sconosciuti? Avverto tutto il peso delle teorie sulla sostenibilità del turismo, oggi molto in voga e in larga parte convincenti, ma pongo la questione innanzitutto sul piano culturale: la positività di un incontro deriva innanzitutto dalla chiarezza con cui le due identità hanno modo di confrontarsi e dalla disponibilità sincera di ascolto reciproco. Il vero problema allora è che quell’identità si manifesti e che abbia qualcosa da comunicare.
La questione è più attuale e concreta di quanto possa sembrare a prima vista e comporta implicazioni sul piano operativo e persino della politica turistica. Non vi è oggi alcun territorio che non abbia almeno qualche velleità di proporsi al turista; e così ci si arrovella nell’individuare i fattori di attrazione che più potrebbero avere successo. Partire dall’identità culturale del territorio, dai suoi valori e dalle testimonianze che li rendono visibili e conoscibili è una prospettiva che non solo favorisce l’incontro con il turista, ma che stimola gli operatori locali ad interrogarsi sulle componenti identitarie del proprio territorio e a recuperarle per renderle visibili e comprensibili. Senza alcun timore che il turista possa inquinarle.