La recente inchiesta Ocse-Pisa sui compiti a casa (homework) ha il merito di affrontare un tema ampiamente dibattuto da alcuni anni su scala internazionale. La ricerca riguarda gli studenti entro i 15 anni di età ed ha lo scopo di dimostrare che i compiti a casa possono determinare diseguaglianze nel campo della educazione.
Come e perché? Gli studenti svantaggiati socio-economicamente o culturalmente, questo il succo del ragionamento, non possono essere seguiti dai genitori che, nella fase della scuola dell’obbligo, sono di solito collaboratori molto importanti dei loro figli nell’attività di ripresa delle lezioni scolastiche. In altri casi, non hanno nemmeno la possibilità di fruire di condizioni ambientali (spazio, tempo, risorse e mezzi) che garantiscono un minimo di tranquillità domestica. Il lavoro a casa, questo è l’aspetto interessante del dossier, è un punto di confluenza di vari fattori, non solo attinenti alla famiglia, ma anche alla scuola e alla sua organizzazione.
Ad ogni modo, l’homework viene assegnato in tutti i paesi dell’Ocse, ma — ecco la notizia che ha fatto rumore — mentre in Finlandia i quindicenni impiegano per questa pratica tra le 2 e le 3 ore settimanali, e nell’area Ocse non più di 5, in Italia ne spendono 9, cioè supponendo che il sabato e la domenica non studino, circa un’ora e tre quarti al giorno.
In verità non si tratta di una sorpresa, poiché l’Istat nel 2011, alzando un poco il tiro, aveva già rilevato che “la quasi totalità degli alunni ha spesso o sempre compiti da svolgere a casa: il 97,4% nella scuola primaria, il 98,6% nella secondaria di primo grado e il 97,6% nella secondaria di secondo grado; il tempo dedicato allo studio dopo l’orario scolastico passa da 1 ora e 45 minuti alle elementari a circa 2 ore e mezza alle superiori”.
La scuola italiana si è trovata nuovamente sul banco degli imputati, non tanto per il tempo maggiore dedicato ai recuperi pomeridiani, quanto perché i risultati scolastici dei suoi allievi quindicenni sono inferiori alle medie Ocse e, soprattutto, perché la scuola in sé sarebbe vista come un peso e non come un’opportunità. È già stata riproposta da questo giornale la dichiarazione del ministro Giannini che, in proposito, ha promesso di sbaraccare la didattica frontale, causa di tutti i mali, a favore di una scuola più partecipata, dunque più motivante e meno bisognosa di lungaggini pomeridiane.
Come già è stato sottolineato, si ha tuttavia l’impressione che l’obiettivo non sia stato ben individuato.
Anzitutto perché, per tradizione, la scuola italiana contiene, nella pratica se non nel pensiero pedagogico che la supporta, una componente riflessiva, sintetizzabile nel binomio dell’educare istruendo, che non è riducibile a puro apprendimento o a didattica passiva. Non si è ancora rinunciato a presupporre, ma potrebbe accadere nel prossimo futuro, che la crescita scolastica sia frutto di una maturazione complessiva dell’alunno.
Per questo, le migliori esperienze di scuola attiva del nostro paese hanno sempre visto come fondamentale la presenza degli insegnanti come accompagnatori degli alunni nella ricerca del senso dei contenuti da apprendere, teorici o pratici che siano. Nei paesi di impostazione pedagogica anglosassone, dove imperano metodi di insegnamento/apprendimento basati sulla soluzione dei problemi, non sempre gli studenti, bravissimi in matematica e scienze, hanno competenze altrettanto sviluppate nell’inquadramento complessivo, storico e culturale, degli stessi.
Come devono essere intesi, nella loro sostanza, in area Ocse, i compiti a casa? Alla luce delle numerose ricerche sulla riforma del lavoro domestico (homework reforming) reperibili anche in rete, si può dire che l’attività pomeridiana nella fascia dell’obbligo punta ad una messa in pratica di abilità già apprese durante le ore di lezione (learnt skills), oltre alla preparazione, è ovvio, delle interrogazioni. Di conseguenza la scuola è pianificata e organizzata per favorire processi di autoapprendimento, condivisione delle conoscenze e sviluppo di competenze che rendono superflua la dilatazione del tempo dell’extrascuola.
Nella scuola italiana l’apprendimento è programmato, ma probabilmente meno pianificato e organizzato di quanto non lo sia in altri contesti. Ciò non significa, necessariamente, che le 9 ore settimanali siano inutili e da ridurre con manovre centralistiche, per il semplice motivo che non comprendono solo esercizi di controllo dei risultati già ottenuti, bensì anche di ricostruzione del contesto significativo entro i quali i contenuti sono stati comunicati. Una ricostruzione che comporta un certo tempo, connesso alla funzione che l’insegnante ha o ha avuto nel percorso di insegnamento/apprendimento: il suo metodo, il risalto dato a certi passaggi, l’immedesimazione nelle curvature con cui sono stati esposti i contenuti.
Resta da capire perché ad un tempo maggiore dedicato alle verifiche casalinghe corrisponda, in Italia, un decremento del rendimento degli alunni. È un dato da discutere anche questo perché, nella sua generalità, non attendibile. Esistono scuole che rispecchiano in pieno le medie di rendimento Ocse, altre no. Nelle situazioni migliori, come è stato più volte rilevato, l’autonomia delle scuole e la capacità degli insegnanti di farsi protagonisti dei percorsi educativi insieme agli alunni ha pagato anche in termini di risultati. La risposta italiana alla crisi della scuola potrebbe venire proprio dalla diffusione di queste esperienze di “scuola buona” già in atto. Insomma, agire sulla qualità dell’insegnamento e non tanto sulla quantità del tempo necessario per recuperare gli apprendimenti.