“Il tuo progetto mi sembra molto interessante. Come mai non ha avuto nessun seguito?” “Forse al ministero avevano paura che funzionasse…”.
Questo dialogo surreale fra Salvatore Veca e Andrea Ichino, avvenuto in occasione del convegno per i quarant’anni del centro di ricerche GruppoClas, aveva per oggetto l’ipotesi formulata qualche tempo fa da Ichino e Tabellini (Liberiamo la scuola, 2013), secondo cui il fatto che le scuole possano gestire autonomamente una quota irrisoria della spesa per l’istruzione, intorno all’1,5-2% del totale, ricevendo dal centro le risorse senza possibilità di scelta, impedisce qualsiasi serio tentativo di rinnovamento. La soluzione potrebbe essere trovata adottando il modello inglese delle accademie o quello americano delle charter schools, in cui le singole scuole, o anche parti di esse, come accade negli Stati Uniti, possono decidere di staccarsi dal centro (opting out) governandosi in modo autonomo, senza uscire dal sistema pubblico.
Queste scuole ricevono un finanziamento complessivo proporzionale al numero degli alunni calcolato in base al costo medio di quel tipo di alunno in quella scuola e in quella zona del paese, e devono documentare la loro capacità di raggiungere gli obiettivi fissati dal centro e quelli che hanno fissato singolarmente per convincere le famiglie a iscrivere i loro figli lì piuttosto che altrove. Per farlo, possono reclutare liberamente gli insegnanti, e anche il dirigente, fra tutti coloro che dispongono dei necessari requisiti.
La precisazione sul costo non è inutile: attualmente il finanziamento è fatto per numero di classi e considera i bambini tutti uguali, il che è giusto in linea di principio, ma non tiene conto del fatto che un bambino cinese nel centro di Milano ha un “costo” diverso da un bambino bergamasco a Costa Volpino. Quanto agli studenti paritari, il recente stanziamento di 25 milioni, previsto da un emendamento alla finanziaria, che ha riportato a 497 milioni i finanziamenti alle scuole paritarie (3 in meno dell’anno precedente) ci dice che costano, uno per l’altro (ma in realtà sono quasi tutti nelle scuole dell’infanzia e primarie), circa 500 euro a testa, meno di un decimo degli studenti statali…
Il meccanismo pensato da Ichino e Tabellini in teoria è applicabile all’intero sistema di istruzione nazionale, superando la contrapposizione fra scuole statali e scuole paritarie, che sono, non dimentichiamolo, pubbliche a tutti gli effetti. Le scuole paritarie operano già in un regime analogo a quello disegnato dal progetto: predispongono un programma, che pubblicizzano, in base al quale le famiglie decidono dove iscrivere il proprio figlio; possono selezionare gli insegnanti, fatti salvi alcuni vincoli posti dallo stato; dispongono liberamente dei propri fondi; se gli utenti non sono soddisfatti, se ne vanno da un’altra parte. Ciononostante, devono procurarsi i fondi sul mercato, per lo più attraverso il pagamento delle rette: in altre parole, paradossalmente, le scuole rigide e autonome solo sulla carta sono gratuite (o meglio, finanziate attraverso la tassazione generale), mentre le scuole flessibili e realmente autonome vedono severamente limitato il numero dei possibili utenti dal fatto che non esiste nessun supporto per le famiglie meno abbienti, escluse dalla fruizione del diritto di scelta. Questo in presenza di una tendenza generalizzata, anche se in misura maggiore per la secondaria e per l’università, a spostare una quota maggiore dei costi dell’istruzione su coloro che la utilizzano, accrescendo contemporaneamente i finanziamenti per il “diritto allo studio”.
Ma torniamo al modello globale. Consentire alle scuole di operare in un regime di autonomia reale, dando loro la possibilità di gestire i fondi assegnati proporzionalmente al numero di studenti, e considerandole responsabili dei risultati raggiunti, avrebbe una serie di vantaggi, tra cui il fatto che l’aumento delle possibilità di scelta farebbe crescere la qualità, perché è ragionevole supporre che, in presenza di un adeguato sistema informativo e di monitoraggio, questi sì di competenza dello stato, famiglie e studenti sceglieranno le scuole migliori, che forniscono più risorse per il futuro, piuttosto che le scuole “facili” che rilasciano i titoli senza fatica, come sembrano credere gli avversari della scelta, espellendo dal mercato le scuole scadenti o costringendole a migliorare.
La proposta di arrivare ad un reale sistema di scuole autonome, illusoriamente dato per esistente dalla legge 62/2000, comporterebbe però un’indagine seria sul mercato educativo e sui costi effettivi di un sistema integrato, indagine che non è mai stata fatta per cui non si sa quali sarebbero i costi e i risparmi e — soprattutto — il rapporto fra costi e benefici; e va a cozzare contro l’abitudine a considerare gli insegnanti una variabile indipendente, il cui obiettivo fondamentale sembra essere il posto da dipendente statale, obiettivo che potrebbe perdere la sua centralità se si ragionasse, appunto, in termini di sistema. Andrebbero anche capite meglio le caratteristiche e le possibilità di crescita di una seria imprenditoria scolastica.
Occupandomi da una vita di scuola io penso, contrariamente all’amico Andrea, che fa l’economista e crede nella razionalità, che non sia possibile nella scuola italiana un cambiamento drastico in cui l’opting out diviene simultaneamente possibile per tutti; credo però che ci siano le condizioni per una seria sperimentazione, estesa a un campione significativo di scuole paritarie, che permetta di confrontare il livello di efficacia e di efficienza dei due tipi di scuola, che oggi non possono essere confrontate sotto nessuno dei due aspetti, principalmente perché una delle due fa la corsa nei sacchi.
Mi chiedo però se questa proposta sia percorribile politicamente: forse la risposta alla domanda di Veca sta nella considerazione che ho sentito alle mie spalle: “se funziona, finisce che dovremo fare una scuola per gli studenti anziché per gli insegnanti…”.