Quando ho saputo della sua morte, avvenuta il 25 ottobre, ho pensato che se ne era andato un uomo libero, e in lotta. Di certo l’unico maestro che ho conosciuto tra i corridoi dell’Alma Mater, molto amato dai suoi studenti, nonostante il suo carattere forte, che l’aveva in gioventù portato dal Brasile, attraverso la teologia della liberazione, alla contestazione accesa e militante dei gruppi di base che facevano cultura in Italia sul finire degli anni settanta.
Così era Fabrizio Frasnedi: uno che non si risparmiava. Lo si sentiva già dalla voce, arrochita da innumerevoli sigarette che, da quando il fumo fu bandito dall’ateneo, sostituiva a lezione con innumerevoli caramelle zuccherine. Chi entrava in quell’aula immaginando di seguire un corso di Didattica dell’italiano si trovava immerso in una fucina di riflessioni sulla letteratura, dalla quale era impossibile uscire immutati. Ricordo ancora la mattina in cui entrò con le fotocopie formato A3 della paginona uscita su Il giornale (testata da lui non certo adorata) che annunciava la nascita di un gruppo di “Giovani scrittori cannibali” (i vari Lucarelli, Ammanniti, Santacroce, Scarpa e compagnia bella), oppure quando parlava di un giovane scrittore di talento, suo ex allievo, Guido Conti, che sarebbe diventato uno scrittore di scuderia Mondadori e biografo di Giovannino Guareschi. Per chi partecipava alle sue lezioni, finissime e sanguigne al contempo, ogni mattina era un’avventura. Raccomandava sempre di leggere anche ai bambini (che ci sembravano allora un oggetto lontanissimo da conquistare a suon di belle parole) dei testi di autori per adulti, non depurati, “perché altrimenti dove faranno esperienza di una lingua, complessa come dev’essere? Nei testi ‘semplificati’ perché li riteniamo esseri meno pensanti di noi, che invece siamo ‘grandi’?”. Raccomandava anche di aumentare, come cortesia al lettore, le virgole: “sempre meglio una virgola in più, che una in meno. Ma non tra soggetto e predicato, ovviamente. E finiamola con questi punti esclamativi…”.
Mentre tutti gli altri professori giravano per i corridoi con la saggistica universitaria più bieca e svariata, lui arrivava con l’Ambleto originale di Testori della Rizzoli sotto il braccio, indicandoci le bancarelle della zona dove poterne acquistare copie ormai fuori commercio a un prezzo accessibile alle nostre tasche di studenti universitari. Testori era uno dei suoi amori più totalizzanti, insieme col melodramma, di cui era un raffinato cultore.
Io, che non capivo che mai potesse accomunarli, lo capii quando un giorno, a lezione, ci disse: vedete? La grande opera italiana, in fondo, non è che questo: un giardino di gridi. Queste parole mi si piantarono in profondità, perché dicevano molto della sua vita, non sempre facile (neppure accademicamente parlando, vista la sua indisponibilità totale al compromesso di qualunque natura, cui si ribellava anche con veemenza). Ma dicevano molto anche della nostra, di ragazzi confusamente attratti da quelle parole che lui sapeva riempire di verità che ci squadernava davanti agli occhi, come se avesse trovato una chiave segreta.
Ricordo ancora come una magia la fine del corso sul melodramma, in cui ci fece leggere il Testori più tragico. Ci fece uscire dall’aula al 32 di via Zamboni, girare l’angolo fino a via delle Belle Arti e arrampicarci per i gradini del Centro di poesia contemporanea dell’università, che negli anni estremi del Novecento era uno dei pochi posti in cui trovare un pc con delle casse, ci fece sedere dove capitava e poi mise su Puccini. “Un bel dì vedremo”. Il corso si chiuse così, sul grido meraviglioso e struggente di Madame Butterfly. Era il suo augurio finale, credo, di scovare la bellezza anche nella tragedia.
Vere presenze, chiamava i testi a lui più cari. E infatti l’omonimo libro di George Steiner era un testo fisso nella lista dei libri d’esame. Proprio questo, i testi ci chiamavano a un incontro, una lotta con l’amico o col nemico mortale — ogni lezione, ogni lettura era la notte della battaglia con l’angelo. Lui lo capiva dal sangue, se un libro era buono o no. E poi lo smontava pezzo a pezzo, ci squadernava davanti agli occhi il segreto della magia degli autori più vari, facendoci respirare, dove tutti gli altri volevano confinarci, una grande libertà. In quegli anni Testori viveva una damnatio memoriae che solo lui, a Bologna, spezzava. Fu lui a dirci che, nel teatro che era stato di Leo de Berardinis, Sandro Lombardi avrebbe messo in scena (in un clima quasi clandestino) i Due Lai, una Cleopatràs e una Mater Strangosciàs vertiginose, sublimi, in cui l’arte sacra e la musica dei Queen creavano un tale vortice che le parole sembravano essere delle piccole bombecarta lanciate al pubblico. La presenza di Lombardi rendeva carne le parole di Testori, di cui Frasnedi ci indicò un piccolo preziosissimo saggio incendiario del 1968, poi ripubblicato a cura di Gilberto Santini, intitolato Nel ventre del teatro, che finiva così: “Il faut tenter de vivre: il teatro è un tentativo da fare giusto per le stesse incalcolabili ragioni. Che la risposta non venga non autorizza a non tentare la domanda”.
Non capii mai perché del programma d’esame facesse parte anche Nel territorio del diavolo di Flannery O’Connor, accanto alla Voix Humaine di Cocteau o al Funambolo di Genet, ma questo fu parte della gratitudine che da allora in poi ha caratterizzato i nostri incontri anche fuori dall’ambito accademico. Come quella sera in cui andammo a vedere la maratona dei Pasolini di Latella a Parma e lui si rammaricò di essere stato riservato abbastanza al punto da non venire alla mia festa di nozze (aveva però mandato un telegramma laconico ed affettuoso, la mattina stessa, che arrivò a casa dei miei in contemporanea alle orchidee bianche dei vicini, un dettaglio che gli era piaciuto).
In un tempo in cui i professori erano ancora avvolti di un’aura di intoccabilità, per cui più ci si teneva a distanza dagli studenti, più si era rispettati dai colleghi, lui accettò di fare da tutor a una scalcagnata associazione universitaria che era la veste ufficiale della Compagnia degli Scalpellini, un gruppo teatrale di ricerca che, sotto la direzione del regista Franco Palmieri, avrebbe, in dieci anni, coinvolto oltre cento studenti che volevano mettere la mano vicino al fuoco del teatro. Perché sotto la nostra disorganizzazione aveva intuito battere lo stesso principio del “giardino di gridi”. C’è qualcosa che grida dentro l’essere umano, qualcosa di cui la sua voce è prova. Ma dev’essere una voce che ha un corpo. Per questo diffidava dei poeti contemporanei: diceva di avvertire una sorta di contraffazione nascosta, che faceva fatica a smascherare.
I corsi di Didattica dell’italiano erano spesso, dunque, altro: erano corsi di sopravvivenza alla morte della letteratura. Niente era bandito, purché avesse anche solo un’eco di verità. Ricordo una volta in cui a lezione si parlò della Chiesa, di cui lui era un forte contestatore in quanto luogo di potere inumano, e l’aria si surriscaldò moltissimo, perché in quanto intollerante a qualsiasi ingiustizia si scagliava contro un luogo che riteneva non accogliente per l’umanità dolente di cui era piena la letteratura da lui amata senza riserva, e una studentessa troppo timida per rispondergli a tono in classe gli scrisse una lettera in cui gli diceva quanto il tono che lui usava le avesse fatto male (perché era uno che quando si accendeva faceva tremare le vene nei polsi). Alla lezione successiva, con un tono pacato e quegli occhi profondissimi e feriti che erano, con la voce fatta mansueta, chiese sommessamente scusa se aveva urtato qualcuno per troppa foga, pur ribadendo le sue posizioni.
Rivedendo quella faccia davanti agli occhi, risento le parole di Pasolini: chi ti ha educato non può averlo fatto che col suo essere, e non con il suo parlare. Non sempre il suo parlare mi ha trovato d’accordo, ma quanto era drastico nel suo prendere posizione, tanto era rispettoso, nel senso profondo del termine, del pensiero dell’altro, non avendo paura di ammettere anche quando si era sbagliato. Sì, carissimo professore, è stato il suo essere, e non il suo meraviglioso parlare, che ci ha fatti incamminare sul sentiero delle parole che incarnano la vita, così come il teatro, per lei, rendeva carne le parole. Di questo le saremo grati per sempre, e non la perderemo mai più, non perderemo più la vera presenza di sé che ha saputo donare a tutti i suoi studenti.