E’ iniziato il centenario della conclusione della prima guerra mondiale, quella che per gli italiani fu la “Grande guerra”.
L’inverno del 1918 vide il Paese in una situazione difficile, dopo lo straordinario successo ottenuto dall’esercito austro-tedesco a Caporetto. L’Italia si piegava sulle sue ferite, e mentre Cadorna veniva avvicendato ai vertici militari da Armando Diaz, il popolo affrontava un inverno di paura, fame, freddo e frustrazione. Nel frattempo ci si preparava a mandare al fronte i giovanissimi, i ragazzi della classe ’99, ragazzi strappati ai villaggi e ai campi se non alle aule di liceo per essere inviati sulla linea del Piave. Il nazionalismo italiano ha sempre celebrato con tutti i mezzi quella che considera una delle sue epopee, ma di quel fatidico ’18 bisognerebbe ricordare anche altri aspetti sottaciuti.
Il clima politico e ideologico infatti vide inasprirsi l’anticlericalismo delle istituzioni. La disfatta di Caporetto venne imputata anche alla Chiesa, alla sua posizione pacifista, con il papa che più volte si era appellato a che venisse posta fine all'”inutile strage”. Fin dai suoi inizi la guerra invece aveva suscitato l’entusiasmo di chi voleva portare a termine la Rivoluzione risorgimentale: il conflitto sarebbe stata la grande occasione per battezzare nel sangue il popolo italiano, per forgiarlo come ferro sull’incudine, per “metterlo in forma”, scrollandogli di dosso l’indole pacifica del contadino devoto e baciapile e trasformarlo in un guerriero spietato, degno erede dei legionari di Cesare. Il fascismo venne anticipato, nella sua retorica romana, dal regime liberale.
La guerra vede Italia e Santa Sede immediatamente in conflitto di interessi e di obiettivi: la Santa Sede infatti ambiva ad uscire dall’isolamento diplomatico in cui si trovava, per costituirsi come un’ascoltata coscienza morale del mondo; a quel punto la questione romana sarebbe stata presentata nei termini voluti dal papa: un problema che riguardava tutti i cattolici e tutti i loro rappresentanti nei singoli stati e non una faccenda interna all’Italia. Inoltre il ruolo internazionale guadagnato dalla Santa Sede con una sua partecipazione al futuro congresso di pace avrebbe testimoniato in favore della giustezza dell’impostazione vaticana dei termini della questione.
Al contrario la politica del ministro degli Esteri Sonnino era stata volta a tenere il Vaticano quanto più possibile fuori dai giochi delle grandi potenze, per il timore che queste potessero trovare nella questione romana una motivazione sufficiente a ricattare il regno sabaudo. Il timore dell’isolamento in cui l’Italia si sarebbe con ogni probabilità ritrovata qualora avesse scelto la via della neutralità, per di più con una situazione all’interno sempre più difficilmente governabile per la vecchia classe politica liberale, a causa del rafforzamento dei grandi movimenti di massa di cattolici e socialisti, fu uno dei motivi che spinse alla scelta dell’intervento. La Grande guerra in cui vennero immolate oltre 600mila giovani vite di italiani fu dunque una guerra voluta anche contro la Chiesa. Il governo colse una duplice occasione: quella di partecipare al grande sforzo, voluto dalle massonerie di Francia ed Inghilterra al fine della liquidazione dell’Impero asburgico, ultimo retaggio nella modernità del Sacro Romano Impero, nonché di assestare alla propria mortale nemica, la Santa Sede, un colpo durissimo. L’auspicata vittoria avrebbe posto le condizioni per una dilatazione dei confini a zone di interesse strategico ma di dubbia o nulla italianità (come il Tirolo) così da creare la “Grande Italia”; uscire dall’isolamento internazionale tanto paventato, aggregandosi agli interessi francesi e britannici; rinsaldare l’integrità dello Stato e rintuzzare l’emergere di una classe dirigente cattolica, seppellendola sotto un’orgia di retorica nazionalista. Infine, si doveva impedire che la Santa Sede ottenesse dei vantaggi morali e materiali dalle trattative per la pace.
La “Grande guerra” aveva lo scopo di rilanciare il mito unitario risorgimentale, e di produrre ulteriori miti nazionalistici, e la pace invocata dalla Chiesa non era gradita.
Al momento dell’intervento la posizione ufficiale dei cattolici italiani era stata: “Tacere e obbedire”. Ovvero nessuna compromissione con la decisione del governo di entrare in guerra, ma lealtà di cittadini che sanno compiere il proprio dovere. Le istituzioni ecclesiastiche nei primi tre anni di guerra si erano mantenute equidistanti dalle posizioni del laicato cattolico, sia quello erede dell’intransigentismo anti-risorgimentale, sia quei militanti cattolici entusiasti bellicisti che intendevano dimostrare coi fatti alla classe dirigente liberale che i cattolici non erano contrari agli interessi nazionali. Tuttavia, se l’atteggiamento pontificio fu durante tutto il conflitto di assoluta imparzialità, non mancò nel clero chi si sentì dispensato dall’uniformarsi tout court allo spirito evangelico del papa che non voleva discriminazioni tra i propri figli in sanguinosa lite, e si riconobbe un proprio diritto al patriottismo nell’ottica di una lealtà e di un’obbedienza all’autorità civile.
Tra questo clero patriottico spiccò padre Agostino Gemelli; lo scienziato convertito e fattosi francescano visse il conflitto (dalla Santa Sede sempre definito “Guerra italo-austriaca”) con uno zelo intensissimo che tuttavia trascese le intenzioni di apostolato tra i soldati per farsi spregiudicato nazionalismo. Sul giornale catto-interventista Patria! Gemelli espresse posizioni addirittura antitetiche a quelle del papa, mischiando evangelizzazione e propaganda bellica. Padre Gemelli era stato incorporato nell’esercito come tenente medico, ed era ben presto divenuto molto vicino al Comando supremo, e fu in sostanza il vero leader dei cattolici interventisti.
Nelle trincee del Carso e sulle cime delle Alpi viene dunque affossato l’intransigentismo, la cinquantennale opposizione all’Italia uscita dal Risorgimento. Muore mentre si va uccidendo l’Impero cattolico, mentre tra le quinte si congiura per escludere il Vaticano dalle trattative per la pace, muore nonostante l’opposizione del papa, nonostante il disperato appello di numerosi vescovi che vedevano i seminari svuotati per mandare i giovani studenti ad indossare il grigioverde, muore mentre inutilmente alcuni prelati cercano di denunciare il volgare anticlericalismo che viene diffuso nelle truppe. Non più solo l’ateismo teorico di pochi intellettuali, ma quello pratico, per le masse.
Dalla guerra uscirà un paese peggiore, involgarito, incanaglito dalla trivialità da caserma. L’opera di apostolato dei sacerdoti tra le truppe, a dispetto del collaborazionismo di Gemelli, fu ostacolata in ogni modo dagli ufficiali e dai comandi, timorosi che quello che definivano “pacifismo nazareno” potesse infiacchire gli animi dei guerrieri. Dopo Caporetto si levarono voci di accusa al papa, reo con i suoi messaggi, per gli alti ufficiali, di “aver istillato un inopportuno desiderio di pace nei combattenti che ne avrebbe depresso lo spirito di resistenza”. Molti cappellani si guardarono bene dal sostenere le ragioni del papa, temendo di compromettere il credito patriottico acquisito. I cappellani vedevano nella partecipazione di tutto il popolo italiano all’evento bellico l’ingresso del “paese reale” nella storia del regno d’Italia. I soldati disciplinatamente schierati, obbedienti ai superiori, radunati in massa in occasione delle messe al campo, diedero l’illusione fallace di una riconciliazione compiuta nei fatti. Ci si illudeva di essere alle soglie di una nuova Italia, quella che avrebbe portato alla vittoria e che avrebbe guidato il paese nel dopoguerra, restaurando la civiltà cristiana. Le voci di dissenso erano poche, e drammatiche, come quella di monsignor Luigi Pellizzo, arcivescovo di Padova, che già aveva segnalato l’enorme diffusione della stampa pornografica tra i soldati, e ancor più gravemente dava al papa, in una lettera del 18 agosto 1917, un quadro terribilmente realistico di quella che era la guerra da cui sarebbe dovuta uscire la nuova Italia cattolica: “Ci sono reggimenti che si rifiutano di andare avanti e che vengono decimati: sono altri spinti a viva forza dai carabinieri con le armi impugnate, i quali ad un certo punto rivolgono le armi contro i soldati, mietendoli al suolo a decine, a centinaia talora; altri reggimenti cercano darsi prigionieri in massa, e talora vi riescono delle compagnie intere, o dei battaglioni; e talora la mossa viene scoperta, e si intima il fuoco dietro i fuggitivi, con quali massacri lascio immaginare a Vostra Santità”.
La nuova Italia che emergeva dalle stragi di guerra e che si avviava ai successi nelle battaglie della primavera e dell’estate del ’18, successi resi possibili dallo sgretolamento dell’Impero sotto le spinte dei vari nazionalismi slavi, era un Paese che si avviava a vedere il tramonto di una civiltà cristiana e rurale, semplice e solidale, rozza e gentile, destinata ad essere soppiantata dall’ateismo urbano e operaio e da una classe media ambiziosa e senza scrupoli.