Un grandioso affresco dell’interiorità umana, un intersecarsi di voci e storie cantate nel dialetto pavese di Lardirago in cui i pensieri si “condensano” facendosi materia poetica viva, ardente. Pubblicato per Manni editore, Dei pensieri la condensa di Davide Ferrari colpisce per la capacità di narrare storie creando una sorta di teatro a più voci, sulla scia delle Voci d’osteria di Franco Loi che firma la densa e importante prefazione al volume. Ed è lo stesso Loi, in apertura al libro, a fornirci una possibile chiave interpretativa della poetica di Ferrari:
“Descartes scriveva Cogito ergo sum — penso dunque sono, formula con cui il filosofo esprime la certezza che l’uomo ha di se stesso in quanto soggetto pensante. Direi proprio il contrario: io sono dunque penso. Un uomo può pensare perché stimolato dai desideri, dagli istinti, da presunzione pseudo-scientista, può anche dire il suo pensiero, ma questo non implica necessariamente che si tratti di qualcosa che lui sa, di cui ha coscienza”.
Conoscere, sembra dirci Ferrari, implica un moto più profondo dell’anima e della mente, proprio perché “la cunusciensa l’è par quei/ca sän riparà l’anima e la ment” (“la conoscenza è per quelli/ che sanno riparare l’anima e la mente”). Avere “coscienza” della realtà e di sé richiede cioè un’esperienza del mondo non conseguibile appena con il metodo teorico-scientifico ma una vera “cultura” che nasce dalla terra, da un amore concreto e pieno di ascolto verso l’oggetto che si desidera conoscere: “Mi son chi ca sculti/ al gnent d’i altar. L’impurtänt l’è no vess/ surd, pö g’ho bisogn gnent altar./ Questa chì l’è la me vita/ e qual lì l’è ‘l mè bianchin./ D’i volt am la dän russ/ ma m’interèssa gnent:/ basta ca ‘l sia bon/ al vin l’è sempar vin” (“Io sono qui che ascolto/ il niente degli altri./ L’importante è non esser sordi/ poi non ho bisogno di nient’altro./ Questa è la mia vita/ e quello lì è il mio bianchino./A volte me lo danno rosso/ ma a me non interessa:/ basta che sia buono/ il vino è sempre vino“).
Lontana da un lirismo autoreferenziale, la poesia di Ferrari trova invece la propria forza di visione nel farsi racconto, “epos” che muove dal quotidiano in cui anche il linguaggio sembra nascere con naturalezza dall’incontro con il reale: epica degli umili, dei santi quotidiani che popolano le storie di queste pagine. I pensieri di Ferrari si “condensano” in poesia trasformandosi in parole e suoni quasi inconsciamente, per grazia, attraverso la forza naturale del dialetto appreso dalla balia Ersilia, la “maestra sensa scola” a cui è dedicato il libro: “I parol so no mi fän a gnim in tésta/ si vegnan me un paracadute e la so grassia” (“Non so come fanno a venirmi in testa le parole,/ se vengono come un paracadute e la sua grazia“).
Quello messo in scena dall’autore è un teatro a più voci in cui si agitano le voci della coscienza e dell’interiorità dello scrivente, come sottolineato anche da D. Piccini, che parla di un “teatro interiore” (La lettura del Corriere della Sera, 14 febbraio 2016) e da E. Motta che riscontra un “gioco teatrale prospettico” (Clandestino, 3 novembre 2016) in cui è coinvolto anche il poeta.
Come accadeva anche nelle Voci d’osteria di Loi, ci troviamo di fronte ad una plurivocità di personaggi appartenenti alla più variegata geografia umana: frequentatori abituali di bar, “santi bevitori”, barboni, carcerati, sacrestani, suicidi e morti che qui instaurano un dialogo coi vivi supplicandoli di poter ancora “legg, ved ummò un cicinin ad meraviglia” (“leggere, vedere ancora un po’ di meraviglia”) nel loro cuore.
Le varie sezioni del libro sono introdotte da citazioni tratte dai Four Quartets di Eliot che portano nel libro la grande questione del tempo, connesso alla realtà della morte e qui rappresentato come “un boia trasparent o negar ca/ ‘nna vegna adrè di spal ad cursa” (“un boia trasparente o nero che/ ci coglie alle spalle di corsa“). La problematica della morte pervade le pagine di Dei pensieri la condensa senza subire censure o nascondimenti. In Farcela con la morte (Cittadella, 2009) il filosofo Fabrice Hadjadj spiegava infatti come l’accettazione della morte, del limite e della paura di fronte alla morte fossero l’unica strada possibile per costruire una cultura di vita, a differenza del “rifiuto della morte” tipico delle società più evolute. Nelle liriche di Ferrari la realtà della morte (a cui è dedicata un’intera sezione) è rappresentata nella sua nuda realtà, associata ad una paura primordiale che può però tramutarsi in festa, come accade nella descrizione di alcune usanze del folclore lituano per cui “As festegia un cumpleann in s’una tumba,/ ammò frèsca ‘d fiur, curun,/ dal mort as sénta frèsc ammò l’udur” (“Si festeggia un compleanno su una tomba/ ancora fresca di fiori, corone,/ del morto si sente fresco ancora l’odore“). Invece che censurata o rifiutata, la morte può rappresentare infatti l’ultimo, decisivo passo per il compimento sereno del proprio destino: “Am piasariss capì sa s’pröva/ a sta insì chiét in facia a la/ pagüra. La parariss un’ura grama/ ma l’è una roba bèla andà/ a basà ‘l Signur e capì gnent” (“Mi piacerebbe capire cosa si prova/ a stare così tranquilli davanti/ alla paura. Sembrerebbe un’ora grama/ ma è una bella cosa andare/ a baciare il Signore e non capire niente“).
L’altro tema centrale del libro è poi quello della “santità” per cui, secondo la citazione eliotiana posta in epigrafe, “Comprender/ il punto di intersezione del senza tempo/ col tempo, è un’occupazione per santi”. Santi finiscono perciò per essere gli uomini anche più umili, coscienti della propria “vocazione” nel mondo, coloro sempre pronti a “trà al nas da chì e da là/ tamme par nasà/ l’udur ‘d l’eternità” (“buttare il naso di qua e di là/ come per sentire/ l’odore dell’eternità“), oppure come il dottore-carcerato che “Al guardeva in facia i omm e ‘l cugnusseva/ da visìn änca la mort” (“Guardava in faccia gli uomini e conosceva/ da vicino anche la morte“).
La santità sembra corrispondere alla trasparente semplicità di uno sguardo fiducioso verso il mondo e la sua trama di incontri, problemi ed occasioni; l’apertura conoscitiva di chi, libero dalle maglie dell’intellettualismo e dell’ideologismo, attraverso la fede dei semplici può permettere al tempo di svelare il proprio destino: “Ma scundi no in d’i libar o in d’i spiegassion/ mi ho mai stüdià, ma ho capì/ ca gh’è d’i rob ca s’pöda no spiegà./ ‘l prublema l’è no cur par sta davänti/ o, di volt, restà änca indrè. ‘l prublema/ l’è fidass e trà ‘l nas in di rob, giù/ in prufundità./ E püssè ‘l büs l’è prufund/ e men al temp al fa fadiga a fa/ ‘l so curs” (“Non mi nascondo nei libri o nelle spiegazioni:/ io non ho mai studiato, ma ho capito/ che ci sono cose che non si possono spiegare./ Il problema non è correre per stare davanti/ o, alle volte, restare anche indietro. Il problema/ è fidarsi e mettere il naso nelle cose, giù/ in profondità./ E più il buco è profondo/ e meno il tempo fa fatica a fare/ il suo corso“).
Solo tramite questa fiducia l’uomo, liberatosi dal peso delle mille preoccupazioni quotidiane, può tornare a contemplare il mistero dell’universo, nella potente figura della luna che apostrofa gli uomini per la loro incapacità di ascolto: “? passà insì tänta temp,/ mi son sempar chì,/ e chi por diaul, ca ien insì brav a cur,/ han namò capì un bel gnent/ dal mutur ca möva al mund” (“? passato così tanto tempo,/ io sono sempre qui,/ e quei poveri diavoli, che sono così bravi a correre,/ non hanno ancora capito un bel niente/ del motore che muove il mondo“).