La seconda guerra mondiale in Italia ha rappresentato uno sfacelo di dimensioni enormi. Alle distruzioni materiali e istituzionali, alle profonde trasformazioni politiche, sociali ed economiche, ai lutti senza precedenti — dovuti soprattutto all’uso massiccio di bombardamenti aerei sulla popolazione civile — va aggiunta anche una distruzione per così dire “morale” e “spirituale”, che ha annientato la coscienza individuale e collettiva della nazione. Non è un caso — come è stato studiato — che dopo la guerra (come del resto accadde dopo la prima guerra mondiale) siano aumentati notevolmente i casi di violenza privata, spesso sfociati in omicidi o suicidi. Il conflitto, dunque, aveva contribuito in modo determinante a creare un vuoto di valori e un’assenza di ideali tali che lo stesso valore della vita umana ne risultava ridimensionato. Tuttavia, proprio questo vuoto di ideali aveva accresciuto nelle masse il bisogno di un sistema valoriale e ideologico con cui immedesimarsi e identificarsi, attraverso il quale poter dare senso e obiettivi all’esistenza.
È in questo contesto, da non sottovalutare, che si inseriscono i partiti politici del dopoguerra e il loro ruolo fondamentale nella ricostruzione sociale, politica ed economica del Paese. Democrazia cristiana e Partito comunista, in particolare — sebbene in modo diverso — rappresentarono quei “contenitori” entro i quali collocare una parte importante delle masse italiane che, uscite orfane dal fascismo e da tutto il complesso sistema rituale del Partito nazionale fascista — fatto di miti, riti e simboli — erano ora in cerca di nuovi strumenti identitari per far fronte alle rinnovate esigenze che il presente imponeva. Nell’Italia del dopoguerra, dopo il vuoto di potere che si era aperto con la crisi delle strutture repressive e coercitive della dittatura, furono i partiti antifascisti ad assicurare la promozione e la diffusione di nuovi valori capaci di indicare una via di uscita al Paese. Costretti alla collaborazione dalla precarietà della situazione e per la stessa grandiosità del compito — rifondare la convivenza civile tra gli italiani — questi partiti, pur caratterizzati da ideologie profondamente diverse e a volte opposte, scelsero come punto di riferimento comune per il confronto politico lo Stato democratico a base parlamentare.
La storiografia ha a lungo sottolineato come, dopo la fine della dittatura, i due maggiori schieramenti politici fossero una sinistra — che comprendeva gli azionisti, i socialisti, i comunisti e, più defilati, i repubblicani —, desiderosa di rinnovare profondamente lo Stato, la sua classe dirigente, la struttura economica del Paese e favorevole all’instaurazione della repubblica, e una destra — di cui facevano parte i liberali, i democratici del lavoro, i qualunquisti e, soprattutto, i democristiani — filo-monarchica o agnostica in materia istituzionale e in continuità di uomini e cultura politica con lo Stato prefascista. Ma a ben vedere, sin dai primi momenti, tra le forze politiche si andava delineando un’altra frattura che prescindeva dall’appartenenza allo schieramento di destra o a quello di sinistra, ma dipendeva dalla consapevolezza — o dalla mancanza di consapevolezza — di ciò che il fascismo aveva rappresentato nella storia nazionale.
Si espressero infatti in quegli anni due modi contrapposti di leggere la storia d’Italia e l’origine dei suoi squilibri politici.
I piccoli partiti — i liberali e soprattutto gli azionisti — che avevano una struttura elitaria trasmessa dal prefascismo, sottolineavano la necessità di trasformare in primo luogo il sistema istituzionale e amministrativo perché ritenevano di poter far rinascere la democrazia italiana solo attivando strumenti di decentramento e autonomia che impedissero la degenerazione autoritaria.
I comunisti e i cattolici, invece — con i socialisti collocati in una posizione intermedia — erano fermamente convinti che il problema originario della democrazia italiana consistesse innanzitutto nell’aggregazione del più vasto consenso popolare possibile.
A loro giudizio, infatti, il fascismo aveva profondamente trasformato la politica italiana, facendo emergere prepotentemente il ruolo delle masse sul palcoscenico pubblico, lasciando nella coscienza e nelle abitudini degli italiani un coinvolgimento “di massa” dal quale era impossibile prescindere. Di questo cambiamento irreversibile non si poteva non tenerne conto: qualsiasi sistema dovesse rinascere dalle ceneri del fascismo doveva tener conto del massimo consenso e della massima aggregazione popolare possibile. Per comunisti e cattolici, dunque, l’integrazione delle masse nel nuovo Stato era considerata l’assoluta priorità, la prima questione da risolvere rispetto a qualsiasi ipotesi di riforma istituzionale. Se si esaminano le forme organizzative e propagandistiche cui diedero vita cattolici e comunisti, ci si accorge subito che la rielaborazione — a volte, l’imitazione — del modello fascista fu esplicita (anche se, per comprensibili ragioni di legittimazione, quasi sempre taciuta) nella rete di iniziative assistenziali, culturali e ricreative a cui quest’ultimo aveva dato vita attraverso il partito stesso e con le varie opere: l’Opera nazionale dopolavoro, l’Opera nazionale Balilla (poi Gioventù italiana del Littorio), l’Opera nazionale maternità e infanzia, l’Opera nazionale combattenti, ecc.
L’ipotesi dei comunisti e dei cattolici fu quella vincente.
(1 – continua)