C’è una scena in “Schindler’s List” che, pur in un contesto drammaticamente diverso, fotografa in maniera impietosa la situazione in cui si trova oggi la scuola italiana. Durante l’occupazione nazista di Varsavia, un anziano suonatore ebreo di violino si sente rispondere dal burocrate di turno che il suo lavoro “non è necessario” e che, di conseguenza, deve lasciare il Paese per il campo di concentramento. “Da quando la musica non è necessaria?” chiede con stupore il musicista, senza ovviamente ottenere risposta.
Potremmo porci più o meno la stessa domanda davanti al degrado culturale che sta vivendo il nostro sistema scolastico, sempre più prono al mercato del lavoro: sono forse necessari la letteratura o la storia dell’arte? Leopardi serve forse a trovare un impiego o Michelangelo a vincere un concorso pubblico alle Poste? “No, ma servono ad essere se stessi” ricorda Francois-Xavier Bellamy, giovane filosofo ed insegnante parigino impegnato in questi giorni in un tour fra le città italiane per spiegare i contenuti del suo I diseredati ovvero l’urgenza di trasmettere, libro che ha venduto migliaia di copie in Francia e che nel nostro Paese è stato tradotto per Itaca. “Uno dei saggi più lucidamente appassionati sulla crisi educativa degli ultimi anni”, ha scritto Susanna Tamaro sul Corriere del 12 aprile.
Diseredati nel senso di privati di una eredità, quella del sapere tout court che, invece, andrebbe di nuovo trasmesso e senza perdere altro tempo. Così non la pensa, secondo la documentata testimonianza di Bellamy, il ministero francese dell’Istruzione per il quale le menti dei giovani virgulti non devono essere riempite dalle informazioni culturali degli adulti, sorta di orchi-dittatori in preda a manie di onnipotenza, pena la rinuncia alla propria libertà di pensiero. Ah, la sciagurata triade “liberté, egualité, fraternité”! Così la pensava anche Rousseau e il suo verbo è giunto sino a noi valicando i confini di Francia.
Forse la situazione nelle italiche aule non è ancora giunta a tale livello di disfacimento, ma i segnali in tal senso si moltiplicano fra moduli da crocettare, esami facili, promozioni obbligate, test Invalsi (in corso) di cui non si capisce l’utilità dal momento che non servono più neppure come prova d’esame, burocrazia a go-go, lavagne Lim, cellulari sdoganati dal ministro (in scadenza) perché renderebbero più semplice ed accattivante lo studio. E via così, con gli atenei impegnanti ad organizzare corsi accelerati di lingua italiana per consentire ai laureandi di stendere una tesi minimamente degna di questo nome.
“Il libro, questo pesante fossile, sembra reso definitivamente obsoleto dalle promesse della dematerializzazione — scrive Bellamy, che a 33 anni esce dal coro di tanti suoi coetanei, ma anche di chi gli potrebbe essere padre e occupa i centri del potere culturale —. Nel nostro mondo dell’immediatezza, dominato dall’onnipresenza della tecnologia, è diventato incredibilmente difficile dedicare al percorso della lettura la concentrazione che richiede. La lettura si colloca all’estremo opposto della logica digitale: sembra appartenere già alla storia dell’informazione”.
Ne consegue, per dirla ancora col docente francese che col suo libro ha rilanciato in pieno il dibattito sull’educazione e la scuola in Francia (mentre in Italia tutti tacciono, docenti e sindacati compresi) che “l’intero processo educativo si basa su un’enorme illusione, su una menzogna assoluta”: che, cioè, ripartendo ogni volta da zero si possa costruire l’uomo nuovo, finalmente libero da lacci e imposizioni, una sorta di “buon selvaggio” alla maniera dell’illuminismo. Che follia pensare che l’indeterminato e il non scontro-confronto possa generare qualcosa di buono. “Dobbiamo dunque entrare in classe senza sapere perché?” è la domanda di fondo di Bellamy. La stessa che, nello sbandamento studentesco collettivo, ci dobbiamo porre anche nel Paese dove, per antica tradizione, “il sì suona”. Forse ancora per poco.