Secondo gli esperti, a usare Twitter nel mondo sono soprattutto gli iuniores. Si tratta dei giovani più istruiti dei paesi più avanzati tecnologicamente. Pare tuttavia che ai giovani italiani Twitter non piaccia così tanto. Sembra che preferiscano Facebook. Alcuni dicono che Twitter in Italia sia una comunità di giornalisti, politici e (s)vipperia varia. Il popolo fa prima a non scrivere e non leggere; anche perché non c’è da fidarsi di chi twitta sta sereno e un minuto dopo ti fa secco — e qui l’italiano eccelle in brevitas.
A questo proposito, su Repubblica del 22 dicembre è pubblicato un denso contributo di Ivano Dionigi sui vantaggi del latino “efficace, chiaro e molto sintetico”, che si presta in modo ideale alla comunicazione su Twitter. Il latino è lingua “densa”: con poche parole consente di comunicare molto e quel che non è espresso, è lasciato intendere.
Si tratta di un punto di vista interessante, che invita alla riflessione. Cominciamo dalla “densità”. Essa ha due motori: le proprietà strutturali della lingua e il patrimonio degli strumenti stilistici elaborati dalla tradizione testuale. Eugenio Coseriu — massimo linguista europeo del secondo Novecento — parlerebbe di due artes: la “tecnica della lingua (Sprache)” e la “tecnica del discorso (Rede)”. Per la tecnica della lingua, il latino condensa in una forma di parola informazioni che le lingue moderne distribuiscono su più forme (delenda vs. “deve essere distrutta”). Per la tecnica del discorso, i grandi autori hanno fatto del latino uno strumento adeguato ai compiti comunicativi più prestigiosi. Per questo, è stato il modello per l’elaborazione (Ausbau) delle lingue moderne.
Forse buona parte dei testi contemporanei scritti in italiano (e in altre lingue) sono prolissi. La colpa non è delle lingue, ma degli autori. Oggi tutti scrivono, anche perché non costa fatica riempire la pagina, sulla carta o sullo schermo. Un tempo, l’impresa era di pochi; e quei pochi pensavano, prima di scrivere su un materiale di per sé scarso e costoso. Si tenevano presenti le ragioni dell’uditorio: chi non sapeva leggere, doveva essere aiutato a ricordare quel che aveva udito. Per trovare formulazioni efficaci, che rimanessero nella memoria, serviva brevità: a ben vedere, si ricorda meglio un testo essenziale di uno prolisso. Ma la brevità esige tempo, proprio come un buon brodo ristretto.
Lo stile conciso non dipende tuttavia dalle proprietà sintetiche della struttura. Per esempio, l’inglese è lingua analitica (la flessione ha molte forme perifrastiche); ma la morfologia flessionale è ridotta: non vi è genere grammaticale; la persona del soggetto non esige una marca verbale (e se questa c’è, è ridondante, come la terza persona al presente); il legame dell’aggettivo attributo con il sostantivo non è segnalato da concordanza; in generale, le funzioni sintattiche dei costituenti della frase sono indicate dalla posizione (come avviene, tra l’altro, per il cinese).
L’inglese può fare a meno di una serie di informazioni che in latino si devono esprimere obbligatoriamente nella flessione. L’inglese, lingua analitica, ha tratti di lingua isolante ed è più economica del latino. Inoltre, le parole inglesi hanno poche sillabe e quelle più lunghe tendono a essere abbreviate nel tempo. È vero: spesso al latino basta una sola forma di parola là dove all’inglese ne serve più d’una. Ma le parole inglesi hanno poche forme e si imparano in fretta. Quelle latine hanno molte forme e richiedono studio paziente, tanto più faticoso quanto più lo studente abbia una lingua materna del tipo isolante (come gran parte delle lingue orientali).
È poi vero che un testo redatto in inglese è tendenzialmente più breve di uno scritto in italiano. Questo avviene anche per ragioni di stile: l’inglese evita gli arzigogoli delle lingue romanze. Da una parte, l’inglese si è costituito dal basso, come idioma dell’uso comune, che bada all’economia e alla comprensibilità; dall’altra, è stato ulteriormente elaborato e sviluppato sul modello della tradizione classica. Oggi l’inglese è una realtà pluricentrica e globalizzata: è pluricentrica, perché le varietà standard sono diverse a seconda del paese che riconosca l’ufficialità di questa lingua (Gran Bretagna, Usa, Irlanda, Canada, Australia, Nuova Zelanda; e poi India, Nigeria, Singapore ecc. ecc.); è globalizzata perché al di sopra delle varietà standard vi sono gli usi dell’inglese da parte di individui che non appartengono a comunità anglofone. Tuttavia, anche se è esposto a rischi di impoverimento e di erosione della strumentazione espressiva, l’inglese mantiene una tendenza alla brevità.
Il latino è lingua ideale per comunicare su Twitter? Può darsi. Peraltro, anche l’inglese va bene. Forse l’italiano è più prolisso, ma se gli italiani si mettessero a twittare in latino, vi è motivo di ritenere che difficilmente cambierebbero le loro abitudini ad allungare il brodo: sceglierebbero uno stile ampolloso, userebbero endiadi, ricorrerebbero alla variatio, attingerebbero al magazzino delle frasi fatte e delle citazioni dai classici. Esagerando, si esporranno al ridicolo — est modus in rebus, perbacco. E c’è sempre il rischio del fraintendimento — il famoso qui pro quo (da non confondere con Qui, Quo, Qua).
Peraltro, anche Pico De Paperis andrebbe in crisi se dovesse scrivere in latino su cose moderne. È arduo, per esempio, parlare della cravatta (focale Croatum). E le cover girls? Si dicono exterioris paginae puellae, secondo il Lexicon recentis latinitatis (Libraria Editoria Vaticana, in Urbe Vaticana a. MCMLXXXXII). L’espressione è lunghetta. Prendiamo poi il giro di valzer, così diffuso in politica: esso corrisponde a orbis saltatorius Vindobonensis. Non va meglio con il buttafuori (nel senso dell’addetto alla security): è un scaenae superintentor. Il gioco invece funziona con bancarottiere, che diventa decoctor. Finalmente un’espressione sintetica ed efficace. Ma sono dolori quando ne va del giroconto (pecuniae depositae circumlatio).
Per farla breve: il latino va bene per certi contenuti, va male per altri. Così è per tutte le lingue. Se proprio vogliamo brevità, efficacia e modernità, allora usiamo i dialetti. Ma va’ a ciapa’ i ratt, dirà qualcuno. Non avrà torto.