Quando ho visto che usciva nei cinema un film dedicato a un matematico come Alan Turing e interpretato dall’attore che avevo tanto apprezzato nella serie “Sherlock” della BBC, Benedict Cumberbatch, ho capito che dovevo andare a vederlo quanto prima. Questo per spiegare che chi scrive non è un critico professionista, ma un fisico che ammira i grandi personaggi della scienza e le serie televisive belle.
Dico subito che “The imitation game” non ha minimamente deluso le mie attese, perché è un film molto bello che merita di essere visto. Il film racconta la vita di Alan Turing concentrandosi in particolare sul periodo durante la seconda guerra mondiale in cui lavorò per decrittare il codice segreto della macchina tedesca Enigma. Nonostante il tema apparentemente poco emozionante e il fatto che della storia si conosca, almeno a grandi linee, sviluppo e conclusione, i 113 minuti scorrono rapidissimi. Mi limiterò qui ad evidenziare alcune delle cose che mi hanno colpito, raccontando tra l’altro solo avvenimenti che sono all’inizio del film, perché è vero che la storia è nota, ma raccontare la fine è sempre disdicevole.
Assai interessante è la ragione che spinge Turing a imbarcarsi in questa sfida intellettuale, lasciando in quel periodo i suoi studi accademici (per cui è giustamente e unanimemente famoso). La sua risposta a perché affronti questa sfida è perché “a me piace risolvere problemi”. Non vincere la guerra, non una soddisfazione professionale, ma risolvere un problema. Chiunque si imbarca in una ricerca scientifica sa che spesso questo è il primo motore della propria intrapresa. E non si pensi che sia motivo da poco o trascurabile.
La curiosità di capire un certo fatto scientifico è una spinta che non si ferma, quando magari altre (ad esempio i soldi o il successo) hanno terminato la loro azione propulsiva. E questa curiosità pervade tutta la realtà: in questo modo gli scienziati non affrontano solo i temi di moda al momento, ma qualunque cosa stimoli la loro curiosità. Così fanno quelle scoperte inaspettate che permettono gli avanzamenti più interessanti. In questo modo ad esempio, quando Einstein elaborò la teoria della relatività, trovò gran parte della matematica necessaria già elaborata.
Un’altra cosa che colpisce è l’incrollabile fiducia di Turing nel fatto che la sua ricerca sia giusta. Non si pensi a un atteggiamento superbo: questo è un altro tratto distintivo di uno scienziato che, quando ha elaborato un’ipotesi, è pronto a difenderla di fronte a tutto e tutti ed è pronto a fare tutta una serie di esperimenti di conferma perché è certo che la realtà gli darà ragione. Unica condizione è saper cambiare idea quando la realtà ti smentisce: ma quell’incrollabile fiducia nella tua ipotesi ti avrà comunque fatto fare dei passi avanti.
Un’altra cosa però Turing impara nel corso del film: che la ricerca è un lavoro che non può essere fatto da solo. Per quanto sia indiscutibilmente il più geniale del gruppo, deve arrendersi al fatto che ha bisogno degli altri colleghi per riuscire ad andare avanti.
Molti altri sono i temi che mi farebbero dire che siamo di fronte a un film istruttivo, se non fosse che l’uso di tale aggettivo affiancato a un prodotto della settima musa genera un’immediata ripulsa nel pubblico. L’assurdità del bullismo, l’oscenità delle leggi contro l’omosessualità nell’Inghilterra del dopoguerra, le responsabilità che derivano dal potere. Ma la vera ragione per andare a vedere il film è passare due ore in compagnia di uno dei personaggi più interessanti del secolo scorso.
Lasciamo agli esperti il giudizio sul completo rispetto della verità storica e andiamo a vederlo. Al massimo posso far mio lo scherzoso avvertimento fatto dal New York Times nella sua recensione dove dice che andrebbe vietato per “advanced math, most of it mentioned rather than shown”(“matematica avanzata, più citata che mostrata”) dato che, per tranquillizzare i non appassionati, di formule non se ne vede in pratica neanche una.