Molte sono le inquietudini della crisi antropologica in cui versa l’umanità della tecnica e della globalizzazione, cioè noi oggi. Noi, nelle nostre società oggi. Dove, in nome dei diritti dell’Individuo, unico soggetto morale rimasto in campo, sembra viversi in un nichilismo istituzionalizzato come privilegio sociale e ideologico di ciò che è esteriore, immediato, visibile, veloce, superficiale, provvisorio, come recentemente ha ricordato Papa Francesco. Fondamentalmente in un privilegio dell’autoreferenzialità del desiderio individuale. In una “notte del desiderio”, dove tutti i desideri, come le hegeliane vacche della “notte della coscienza”, sono “neri”, cioè non distinguibili tra essi; tra quelli che portano luce, che “aprono”, ci aprono, ci mettono in relazione con gli altri, e quelli che “chiudono”, ci chiudono, ci mettono al buio di noi stessi; magari in una navigazione in rete di selfie dove nessuno incontra nessuno.
La più inquietante tra queste inquietudini è quella che chiamerei la smoralizzazione del mondo. L’esito concreto di ciò che Nietzsche un secolo fa, annunciando che sarebbe stato il destino dei prossimi due secoli, intese come nichilismo etico. L’annichilazione dell’ethos non come mero sovvertimento dei precedenti valori sostituiti da altri che ne surroghino la deperita vitalità, ma come una trasformazione di ciò da cui deriva e in cui si mantiene l’esser-valore del valore, la fonte del valore, della coscienza morale. La trasvalutazione, per stare al lessico di Nietzsche, come transito del fondamento dell’esser-valore da un mondo trascendente (“sovrasensibile”) in quale che sia direzione – la verticalità di Dio, o la sovrastante immanenza della legge di natura, o della comunità – di cui il sentire individuale deve porsi in ascolto morale, al libitum immanente a se stesso della sensibilità individuale. Oggi siamo qui, in questo scenario, dove si fa fatica a ritrovare un filo fondativo all’agire morale: troppe mani ne tirano i capi.
Ben venga dunque, per l’autorevolezza delle sue analisi delle pericolose derive della società degli individui in cui siamo immersi, il richiamo di Zygmunt Bauman, nell’intervento di cui si è letto in questi giorni a “Torino spiritualità”, che l’io morale non trae origine né dalla scienza né dal cielo, ma dalla solidarietà reciproca; e che non importa se crediamo o meno nell’Altissimo, ma che viva in noi la nostra responsabilità del mondo che lasciamo ai nostri figli.
L'”occhiello” nel titolo che ha riportato su Repubblica l’intervento di Bauman, suggerisce al lettore che così il sociologo tedesco si sottrarrebbe all’antitesi tra Dio e nulla, tra materialismo e trascendenza e proporrebbe una diversa idea di spiritualità. Fortunatamente, non solo per noi, ma anche per Bauman, non è così. L’Altissimo non ha bisogno di difensori di ufficio, e non lo tireremo in campo.
Ma mi pare che, più o meno, il Figlio dell’Altissimo qualcosa di simile dicesse nell’insegnare, con l’amore di Dio, il suo equivalente terreno, l’amore del prossimo, con il quale almeno mezza strada verso il Cielo, verso il Padre era fatta; anche per chi non aveva le gambe per spiccare il salto. Il Figlio dell’Altissimo era un finissimo psicologo, quanto meno.
Quello di Bauman è un modo incisivo e piano di “ridire” la “trascendenza” della coscienza morale – della “voce della coscienza” che parla in me – dalla coscienza in cui parla, dal singolo Sé in cui prende la parola; e prendendo la parola, facendolo emergere a vera e piena individualità nella struttura relazionale della persona. Perché questo significa antropologicamente la “trascendenza” della coscienza morale, al netto di un suo debito all’Altissimo. Il suo fondamento nell’ethos, nella concreta vita etica della relazione umana, del gruppo, della comunità; dove il principio di realtà dei comportamenti socialmente efficaci tempera e media già nella “storia”, nella filogenesi, del gruppo, le pulsioni e il desiderio di sé individuali.
Noi siamo quegli esseri che scoprendo il niente, cioè la nostra mortalità, il fatto che ci siamo, siamo insieme anche gli esseri a cui sorge il problema di come dobbiamo esserci nel fatto che ci siamo, e di come possiamo rimanerci, se non noi i nostri figli. Nei quali continua la speranza che sulle ginocchia dei nostri genitori ci ha chiamati al mondo. Speranza che – come la solidarietà in cui e da cui si viene al mondo, e tramite cui si resta al mondo, la reciprocità affettiva in cui siamo da sempre ingaggiati – è la vera nostra chance, si creda o non si creda, e qui siamo d’accordo con Bauman, contro il nichilismo.