Destinazione Piovarolo. Un film poco noto di Totò, forse il suo migliore.
Un aspirante capostazione, goffo e un po’ fuori dal mondo ma ricco di entusiasmo, risulta ultimo in una babelica graduatoria di concorso e viene inviato in quell’ipotetico paesino appenninico, dove nonostante zelo ed impegno le circostanze lo terranno poi prigioniero tutta la vita.
Senza scomodare Gogol e Buzzati, la concezione di fondo con cui viene ancor oggi gestita la professione docente resta la stessa: per lo Stato sei un numero su un elenco, puoi sperare nella piccola soddisfazione di essere trasferito in un posto un po’ più prestigioso, un po’ più comodo. Intanto aspetti di invecchiare, così il tempo gonfierà un po’ una retribuzione avvilente.
Ah, già, ammesso che prima o poi quella graduatoria si apra e che, con l’ultimo numero, tu riesca almeno ad entrare in pianta stabile.
È il baratto della mediocrità: in cambio della rinuncia a qualsiasi bastone, la rinuncia a qualsiasi carota. Poi, si sa, lavorate solo 18 ore alla settimana, minimo dovreste farne 24 per la stessa paga… e non ti vien neanche la voglia di rispondere che i tanti che ci credono, già ora, ne dedicano alla scuola almeno il doppio, mentre altri è già molto se fanno quelle “di presenza”. Perché, per parlarne, si dovrebbe tirare in ballo la “valutazione”, e lì apriti cielo…
In questo periodo in Italia respiriamo tutti un’aria di novità, ci viene da pensare che l’oasi che vediamo sia sì l’ultima, ma che a differenza delle precedenti non sia un miraggio.
Allora, proviamo ad individuare delle piste nuove ed alternative per il reclutamento, e quindi per la mobilità interna e la progressione di carriera, che potrebbero anche essere il primo passo per risolvere in modo originale un situazione che pare incancrenita.
Il punto cruciale resta quello delle graduatorie di abilitazione. Quando la scuola era statica, con pochi indirizzi, erano molto numerose; c’era quasi una corrispondenza biunivoca tra classe di abilitazione e singoli corsi. Uno schema parcellizzato che era chiaramente insostenibile, con la scolarizzazione di massa e la nascita di molti percorsi didattici differenti. Se non altro perché avrebbe richiesto la continua e frequente programmazione di altrettanti concorsi, peraltro anche questi abbandonati passando per tutte le alternative incoerenti che conosciamo, in cui l’ultimo dei pensieri è quello di valorizzare “i capaci e i meritevoli”.
Al pubblico impiego si accede per concorso, lo dice la Costituzione. Ma non dice affatto che le graduatorie debbano essere centralizzate, a livello nazionale, regionale o provinciale, e che l’abilitazione vada collegata automaticamente all’assunzione, come ai tempi del regio capostazione di Piovarolo.
Nella maggior parte delle amministrazioni locali e per la maggior parte delle funzioni, del resto, il pubblico concorso è bandito localmente: si fissano dei criteri minimi per l’accesso, partecipa chi vuole − anche se attualmente già impiegato in altra amministrazione − ed è poi l’ente interessato a stabilire chi risulta vincitore, rispetto alle specifiche prove d’esame relative alle mansioni di quello specifico posto.
Perché non dovrebbe essere possibile nella scuola? Perché c’è il rischio di clientelismo e raccomandazioni? Stendiamo un velo su quel che accade oggi. Basterebbe iniziare a stabilire precise e riconoscibili responsabilità, da quelli che non a caso si chiamano dirigenti scolastici in giù (o in su), cosicché la qualità del lavoro di un certo istituto possa essere fatta risalire a qualcuno con un nome e cognome.
Il passo successivo dovrebbe essere quello della contrattazione individuale, quanto meno sugli obiettivi di prestazione, criterio che pure è in uso nelle altre amministrazioni, ed anche qui è facile smontare l’obiezione del “si sa come va a finire”: di nuovo, ci sia una seria catena di verifica e controllo. Ah già, la verifica, la valutazione… ma prima o poi ci si dovrà arrivare, o vogliamo continuare con la leggenda che tutti gli insegnanti, tutti i corsi di tutte le scuole sono uguali, e che qualunque diploma preso in qualunque scuola ha lo stesso identico valore, differenziato solo dal voto di maturità? E sorvoliamo sul fatto che quest’ultimo, ceteris paribus, è da sempre più basso nelle scuole più serie e qualificate, e viceversa.
Quanto sopra non solo non è affatto incompatibile con le regole della nostra macchina statale, ma chiarirebbe quella fittizia “autonomia” scolastica che nominalmente ha persino un valore costituzionale.
Supponiamo che sia una rivoluzione troppo radicale? Però in questo momento c’è in sospeso un ulteriore, e grave, problema: l’accorpamento delle graduatorie in pochissimi ambiti disciplinari, come previsto (e fortunatamente non ancora attuato) dalla riforma Gelmini-Tremonti. Che sarà sì funzionale alle esigenze spicciole del Mef e di controparti sindacali a cui della qualità dell’insegnamento importa poco, ma ha la pesante conseguenza di far svanire ogni residuo di corrispondenza tra le competenze con cui si accede in graduatoria, e le effettive esigenze di un certo insegnamento in una certa scuola. Persino peggio che con l’antico concorso delle ferrovie.
Dato che oggi ognuno dovrebbe essere propositivo, vorrei indicare possibili strade alternative, che provengano da fuori della macchina ministeriale ma non abbiano la generosa e sterile velleità delle consultazioni del “popolo della rete”, già tentate più volte.
Prendiamo un caso che, a detta di molti, è tra i più anacronistici e disfunzionali. La classe A060 raggruppa le scienze cui − a differenza della Fisica – in età gentiliana si negava una specifica individualità epistemologica, secondo la metafora rutherfordiana della “collezione di francobolli”. Già oggi una classe-monstre cui afferiscono buona parte degli insegnamenti dell’area scientifica, potrebbe ulteriormente dilatarsi grazie ai provvedimenti ora in stand-by.
Il risultato è che alla maggior parte degli studenti italiani, cominciando da quasi tutti i liceali, per tutte queste materie indispensabili ad un bagaglio culturale e professionale moderno è preclusa la possibilità di avere un insegnante che ne sia riconoscibile come specialista, ed un insegnamento che non sia forzatamente generico e parziale, se non per quella buona volontà e competenza dei singoli che ci ostiniamo a non voler “valutare”. Restano a parte la Fisica e, solo in pochissime scuole, la Chimica.
Per quanto mi compete, da anni ho visto partire segnalazioni allarmate dalla Società Chimica Italiana (Sci), da Federchimica, dal Consiglio Nazionale dei Chimici etc., che non hanno avuto risposta.
Tra le proposte ne conosco una da vicino, dato che nel direttivo della divisione didattica della Sci la stiamo rivedendo in questi giorni, rimeditando precedenti idee. Non entro nei dettagli; quel che mi interessa – esprimendomi a titolo personale − è lo schema generale.
Da un lato il contenuto: l’idea è disaggregare gli insegnamenti scientifici (ora per lo più Fisica da una parte, Biologia + Chimica + Scienze della terra dall’altra) stabilendo che ogni disciplina sia insegnata da chi ne ha titoli specifici, e riconoscendo quindi una abilitazione “maior” ed una “minor” che siano assegnate in base al percorso formativo individuale. Così ad esempio il singolo docente, che ha una propria formazione ed esperienza, si troverà ad essere “maior” di una delle quattro aree e “minor” di una seconda. In Europa lo si fa già. Gli studenti ne riconoscerebbero le specificità, la scuola potrebbe addirittura trovare facilitata la composizione delle cattedre.
Dall’altro il metodo: cercare una soluzione che provenga da un confronto partecipato e di contenuti con le altre associazioni culturali disciplinari a cui verrà proposto (Fisica, Scienze naturali), e insieme costruire idee che il legislatore possa recepire dimenticando gli automatismi della macchina burocratica e governando al meglio le fasi transitorie.
Il treno, da Piovarolo, può anche ripartire.