Ho fatto il preside di scuola statale per 25 anni. Quando cominciai ero ateo e politicamente extraparlamentare ma non ero antireligioso, traducevo Dio con Popolo ed inglobavo in questa prospettiva tutti gli insegnamenti, anche quelli religiosi. Al mattino entravo a scuola pronto a fare quello che “andava fatto” e dire “quello che andava detto” con un misto di umiltà e di determinazione, senza servilismo e compiacenza ma nemmeno ostilità con nessuno. Non cercavo amici o adulatori o complici. Non amavo la guerra civile permanente e come preside mi dicevo e dicevo che occorreva creare un clima sereno ed allo stesso tempo culturalmente vivo e dinamico.
La realtà di allora, dai collegi docenti ai corridoi, alle aule, agli uffici, era quella di docenti spaccati da furiose liti politico-professionali, bidelli ingestibili con punte di vera e propria criminalità, impiegati spesso ignorantissimi, ed in ogni segmento una quota crescente di soggetti incompatibili perfino col nome stesso di scuola. Anche i genitori erano divisi tra la componente di sinistra e quella cattolica che si fronteggiavano costantemente. Ognuno poi sfoderava gli artigli e tendeva a dare il peggio di sé, salvo le eccezioni che il cielo ci regala ovunque. I colleghi presidi mi apparivano o schierati, più o meno faziosamente, con una delle componenti in battaglia, o serafici rinunciatari (li chiamavo galleggianti) e venditori all’esterno di visioni e di immagini oleografiche irreali.
La “sinistra” scolastica in fase espansiva e galoppante non voleva guardare la condizione reale dell’alunno di cui pure si dichiarava alleata naturale. Sosteneva, e qualcuno ne era anche sinceramente convinto, che automaticamente il suo approccio “antiautoritario” — così si diceva allora — avrebbe risolto tutti i problemi. Io, che non ero “ultimista”, cioè soggiogato dalla mistica degli “ultimi”, bensì sostenitore delle necessità di gestire una colonna in marcia, cercavo di censire le diverse problematiche degli alunni e di trovare strumenti. Quando pubblicai il primo giornaletto di istituto con i dati sugli alunni problematici (uno su quattro) tutti mi guardarono increduli. La cosa che mi colpì era che sia gli esponenti di destra sia quelli di sinistra sentivano con fastidio le mie osservazioni quantitative sul disagio e l’insuccesso scolastico. La “destra” annuiva ma riteneva che non fosse il caso di drammatizzare. La sinistra, che usava drammatizzare le situazioni, allora aveva come obiettivo la lotta all’autoritarismo per la creazione del cittadino “critico” e quindi era posizionata contro “l’autoritarismo” del docente tradizionale, contro la selezione, la disciplina e la bocciatura. Era sostanzialmente per una valutazione indipendente dal livello reale dell’alunno, in realtà una non valutazione. Una descrizione molto generica senza conseguenze organizzative, né di fine anno né di corso d’anno. Solo “più tolleranza”.
Tornando alla storia. Cominciava allora a diffondersi la febbre tempopienista che pian piano divenne l’arma più potente della lotta dei sessantottini (di cui ero stato un non trascurabile esponente a Milano) per prendere il potere nella scuola. Univa sia l’utopia pedagogica ultraegualitaria e redentrice, sia le istanze sindacali che spingevano con forza alle spalle delle seducenti sirene tempopieniste.
Nel giro di una decina di anni si consumò il rovesciamento della vecchia cupola che fino ad allora aveva governato il sistema (un apparato egemonizzato dalla sinistra Dc, di cui restano anche oggi, mimetizzati qua e là, diversi esponenti) e tacitamente il curricolo dello studente italiano diventò il più lungo del mondo. Ma alla presa del potere da parte della sinistra post-sessantottarda non ha corrisposto alcun miglioramento. Anzi.
Il governo della tolleranza sognante e del sindacalismo, cioè il non-governo, ha prodotto gradualmente il caos. Pian piano le istanze sindacali, la pensione, il precariato, il trasferimento, la graduatoria nazionale, la moltitudine dei bisogni del personale hanno preso il sopravvento sulla vita della scuola. Sì, ci sono ancora i serafici qualitativi, che gettano sulla scena i loro progetti radiosi, quelli che io chiamavo “petali sul letamaio”. Ma la stagnazione e la recessione sono evidenti.
Gradualmente mi resi conto che in realtà mancavano gli strumenti reali per operare in modo mirato sugli alunni. Misi a punto la mia tesi attuale secondo cui ci vuole, ed è in parte (al 20%) già possibile, in tutte le scuole, un giusto mix di lavoro a classe intera (a pioggia) e di lavoro mirato che tenga conto delle caratteristiche individuali.
Non volendo schierarmi con il personalismo totale, ancora una volta fuga e sogno non realistico, ho definito le modalità concrete di frazionamento del curricolo scolastico secondo le mie ormai note quantità (suscettibili di leggeri ritocchi): 15 + 3 + 3 + x. Quindici ore settimanali nazionali, tre di istituto, tre opzionali del singolo alunno, x libere e non obbligatorie per ogni alunno.
Tutto questo senza ridurre il tempo docenza, che però verrebbe frazionato e dislocato nei vari segmenti con enormi vantaggi nel miglioramento della relazione alunno-docente ed una fortissima ricaduta anche sul lavoro a classe intera.
Di fatto la situazione della scuola di stato è ormai drammatica. Un solo dato riassuntivo e traumatico segnalato anche dalla grande stampa: più di metà delle classi sono ingovernabili (ed ingovernate) già dalla prima elementare.
In questo contesto è chiaro che le scuole non statali fruiscono del desiderio sia dei genitori che dei giovani di sfuggire alla morsa del caos, della polemica, della monotonia e dello sperimentalismo futile e fugace.
Questo desiderio crea una forte convergenza tra tutte le componenti della scuola non statale che sono pronte a sopportare anche non trascurabili disagi organizzativi ed economici di fronte all’enorme vantaggio generale. Sono come piattaforme asciutte nella palude. Ma nella scuola di stato, ultra-maggioritaria e paludosa, non può essere il sentimento di fuga a rianimare, unire, attivare dirigenti, insegnanti ed alunni.
Nella scuola di stato, per poter introdurre elementi reali di ripresa e rilancio occorrerebbe intercettare a tutti i livelli, assieme all’ormai rinascente (ma non ancora abbastanza) desiderio di governo e di stabilità, il comune sentire.
Il comune sentire: scomparso di fronte alla vera e propria guerra civile di bassa (a volte anche alta) intensità che per quasi trent’anni ha spazzato la scuola (e la società) italiana.
Come si può ritrovare e ricreare il comune sentire per una solida e produttiva alleanza?
(1 – continua)