“Innocenti pagano le azioni commesse o i loro figli o la stirpe successiva“: con queste parole, verso la fine del VI secolo prima di Cristo, il poeta-legislatore Solone dà una risposta che sembra definitiva alla più terribile domanda echeggiante in ogni tempo: perché il dolore, quando non è un’evidente punizione? e perché al contrario il trionfo degli empi? La punizione nel corso delle generazioni ha un carattere di giustizia: l’empio trionfa ma la famiglia pagherà le sue colpe senza averne commesse, in modo che nel tempo l’equilibrio si ricomponga. Sono idee, presenti anche nell’Antico Testamento, che vengono incontro al desiderio di poter credere ad un bene ultimo, ad una moralità degli dèi e della storia, oltre a confermare che nessuno è solo nel proprio peccato, ma coinvolge negativamente una più ampia realtà.
E tuttavia sono idee insoddisfacenti. Molta parte del mito e della tragedia greca si dibatte in questo dilemma: c’è una giustizia per ogni persona, una corrispondenza fra il suo male e il suo bene? il singolo ha una responsabilità personale, una colpevolezza o una riconosciuta innocenza? Vissuto ad Atene nell’età successiva a Solone, Eschilo prende una via rischiosa: trae dalla tradizione miti conosciuti e li ripresenta insistendo sul margine di libertà concessa a ciascuno. In ognuna delle tragedie rimaste c’è un punto, un dialogo, in cui è affermata la possibilità di scegliere fra bene e male: le Danaidi perseguitate, Prometeo benefattore degli uomini, Eteocle salvatore della patria assediata, Oreste diviso fra due giustizie sono posti di fronte a scelte in cui il bene è affermato con forza (dal Coro, da un amico autorevole) e il male non più solo subìto diviene peccato: e quindi un gesto di libertà.
Un esempio fra tutti. Secondo una variante del mito la stirpe di Edipo è maledetta, una maledizione che si perpetua nelle generazioni e sembra impedire il bene e costringere alla sciagura. I figli sono divenuti nemici: Polinice ha trovato sei alleati e con i sette eserciti pone l’assedio a Tebe, l’antica città fondata da Cadmo, mentre Eteocle la difende con la fiera autocoscienza del capo: “Cittadini cadmei, le parole richieste dalle circostanze deve dire chi guida lo Stato reggendo il timone alla poppa della nave senza chiudere le palpebre al sonno“. Quando si giunge alla difesa delle sette porte il re si attiva scegliendo i guerrieri da contrapporre ai capi nemici, ma alla settima porta contrappone al fratello se stesso. Il Coro di giovani ragazze, finora disprezzato come inutile nella sua religiosità insistente, lo rimprovera, proponendogli la possibilità di sfuggire al male: “No, carissimo fra gli uomini, figlio di Edipo, non divenire simile nel modo di pensare a costui che così malvagiamente si esprime! la morte di due consanguinei che si uccidano a vicenda è una contaminazione che non ha vecchiaia“.
Ma Eteocle è legato a idee più antiche di quelle del Coro, l’orgoglio del guerriero e la macchia della stirpe a cui non crede si possa sfuggire: andrà ad uccidere il fratello e a farsi uccidere, aggiungendo la sua colpa a quella familiare: “in modo conforme al loro nome, ‘suscitatori di molte contese’, perirono per gli empi pensieri“ dirà il Coro unendo nel nome di Polinice (“dalle molte contese”) anche il fratello che gli si è reso uguale.
I due tragici più giovani seguono altre vie. Per entrambi l’idea soloniana della colpa d’origine è quasi abbandonata, a volte accennata solo per ossequio alla tradizione popolare: ma ciò che le si sostituisce non è la libertà, è una solitudine insensata. In Euripide troviamo personaggi giusti e pii su cui si abbatte una sventura voluta dagli dèi per gelosia malevola: Ippolito, il casto seguace di Artemide perseguitato da Afrodite, si appella a Zeus: “vedi questo? Eccomi: io il religioso, io che veneravo gli dèi, che superavo tutti in saggezza, mi avvio all’Ade che mi si apre dinnanzi, avendo perduto del tutto la mia vita!“. E l’ipotesi tradizionale della colpa d’origine si svela nella sua insufficienza per il singolo: “perché mai il male si è abbattuto proprio su di me che non sono per nulla responsabile di colpe?“.
Sofocle ci racconta di giusti perseguitati dagli uomini, come Antigone, o distrutti da errori che gli dèi non impediscono, come Eracle. Ma la sua lunga vita comprende anche il cammino che divide gli anni dell’Edipo Re dall’ultima tragedia postuma, l’Edipo a Colono. In questa risulta chiara l’innocenza di Edipo, che ha commesso azioni terribili senza volerle; tale riconoscimento non è però sufficiente a liberare l’uomo dal dolore, una volta esclusa anche l’eredità colpevole, anzi lo rende prigioniero di un disegno incomprensibile. E’ necessario un atto di fede nella positività della volontà divina, che attraverso vie misteriose ha condotto Edipo ad una fine miracolosa e salvifica per la città ospitale: in questo atto di fede il vecchio ridiventa protagonista e recupera libertà e dignità.
C’è una grandezza umana straordinaria in queste reiterate domande, in questi tentativi di risposta, in questo non accontentarsi di ipotesi che non tengono conto di tutti i fattori in gioco. La realtà è davanti agli occhi, drammatica nel sorgere e nel declinare della grande Atene, e davanti al legislatore e ai poeti sta la città tutta, che attende da loro un insegnamento, la condivisione dei problemi senza ridurli o censurarli, delle proposte di giudizio. Ma la risposta ultima al dolore degli uomini – il Natale e la Pasqua – non è ancora giunta.