La nostra scuola, ormai di massa dagli anni Sessanta, è diventata una istituzione di “adattamento” sociale. Come su una scala mobile: la posizione delle persone sui gradini della scala rimane sempre la stessa, anche se la scala sale, e anzi chi sta in basso viene ulteriormente penalizzato perché deve investire di più in educazione per ottenere gli stessi risultati. La scolarizzazione di massa ha prodotto “l’impressione” di una crescita sociale, mentre, in realtà, c’è stato sì un innalzamento, ma tra i gruppi sociali la posizione relativa è rimasta pressoché immobile.
Immobilismo sociale, rigidità dei percorsi, alti tassi di abbandono scolastico e formativo, lunga transizione al lavoro: i giovani anziché rafforzarsi attraverso il sistema, ne escono mortificati e il Paese, anziché svilupparlo, svaluta il suo capitale umano. Per superare la “scala mobile” e favorire la mobilità sociale e l’investimento nel Capitale Umano valgono le strategie che rimandano ad autonomia e semplificazione dei processi, quali: più libertà di apprendimento per gli studenti, e quindi piani di studio personalizzati, flessibilità nel tempo scuola, flessibilità nelle materie di apprendimento, opzioni di ingresso e di uscita (anticipi), orientamento continuo; sistema dei crediti e reversibilità delle scelte; valorizzazione dei percorsi misti e raccordo tra scuola e istruzione di terzo livello, in cui la mancanza di una alternativa all’Università costituisce ancora una grave lacuna, da colmare al più presto con intese e accordi con le Regioni, in sede di Conferenza Unificata Stato-Regioni.
Ma occorrono anche più flessibilità nei percorsi di formazione dai 3 ai 21 anni e quindi: diritto-dovere fino a 18 anni, pluralità dei percorsi e dei soggetti formativi; modalità, durata e luoghi diversificati dell’apprendimento, alternanza scuola-lavoro, apprendistato per il diritto-dovere, apprendistato professionalizzante.
Il raccordo con il mondo del lavoro è stato colpevolmente trascurato dall’impianto storico della nostra scuola. Tra le priorità c’è per questo anche il rilancio dell’istruzione tecnica e tecnologica. È soltanto di qualche giorno fa l’ultimo appello di Confindustria su Il Sole 24Ore in cui veniva posto l’accento sull’urgenza di riformare gli istituti tecnici per mettere a disposizione delle imprese tecnici con competenza avanzate.
Anche in questo caso sarà fondamentale il dialogo con le Regioni e la volontà di ripensare in termini innovativi e competitivi i percorsi di studi, seguendo le indicazioni del decreto legislativo 226/05, richiamato dalla legge 40 del Governo Prodi.
Ma non vi è dubbio che la revisione dei percorsi di studio dovrà, innanzitutto partire dal tempo scuola. Libero da ogni vincolo esterno di efficacia, il tempo scuola è infatti aumentato nell’arco di venti anni secondo obiettivi e criteri dettati via via dalle pressioni corporative e dalle esigenze astratte dell’organizzazione enciclopedica del sapere (non dell’apprendere), quasi che quantità e qualità debbano coincidere. Che i nostri piani di studio debbano essere resi più essenziali è ormai un dato di fatto.
I rapporti OCSE (Education at Glance) lo evidenziano da diversi anni, collocandoci nella “zona rossa” delle graduatorie per l’elevato numero di ore di insegnamento e un rapporto molto basso studenti/insegnanti.
Eppure andare di più a scuola non coincide con l’imparare di più: le performances dei 15enni nelle principali discipline (lettura, matematica e scienze) rilevate dalle indagini Pisa risultano ben inferiori alla media OCSE. Questo dato mette in luce, come mostrano i Rapporti internazionali, gli evidenti problemi di efficacia e di efficienza delle scelte di spesa (come confermato anche dal Libro bianco del Governo Prodi).
Se le cose stanno così, non solo sarà difficile raggiungere gli obiettivi di Lisbona, ma diventa impensabile competere con “l’impero di Cindia” (secondo la felice espressione di Federico Rampini riferita a Cina e India), che comprende tre miliardi e mezzo di persone, molto più giovani di noi, che lavorano più di noi, che studiano più di noi e che progettano il futuro con sofisticate tecnologie a partire dall’età di 21 anni? Non si tratta più solo di “importare” cervelli da questi Paesi per utilizzarli nei nostri sistemi produttivi: Shangai ha una Business school (bilingue cinese e inglese) che comincia ad attrarre quanto Harvard. Gli studenti cinesi vincono regolarmente le gare mondiali di matematica, scienza e fisica. La città di Bangalore, nell’India meridionale, è il centro di una nuova Silicon Valley.
Le estenuanti discussioni sugli aspetti delle riforme che tengono di fatto bloccata la scuola dal 1997 hanno finito con il distogliere la nostra attenzione dalla necessità di tenere il passo con il resto del mondo, che al contrario, investe nella costruzione del proprio capitale umano per far crescere lo sviluppo e mantenere la propria competitività.
Ormai, la strada delle sfide è in salita, ed è globale.
Ecco perché è necessario procedere velocemente. Ma anche prevedere una “dieta” che consenta di ridurre la dilatazione eccessiva e insostenibile dei costi e degli effetti poco lusinghieri dei percorsi di studio.