Con la fine degli esami di Stato una nuova generazione di giovani si sta trovando di fronte a un vero e proprio dilemma, se non vera e propria angoscia: “E adesso? Cosa faccio, cosa scelgo e come faccio a scegliere?, e chi mi dice che quella che ho in mente è una scelta giusta per me?”. Domande legittime, domande sacrosante.
Una cosa mi ha colpito, rivolgendo ai ragazzi alla fine dell’orale, da presidente di commissione, una semplice domanda sul loro futuro: pochissimi, si possono contare su una mano, hanno detto di avere le idee chiare. La grande maggioranza si è dichiarata incerta, con possibili opzioni che sono tra di loro agli antipodi: “o giurisprudenza o lingue o medicina o economia oppure mi cerco un lavoro”. Non sono, esattamente, scelte equivalenti; sono scelte che comportano, se fatte proprie, progetti di vita differenti, che abbracciano competenze diversissime.
Eppure di tempo non ce n’è molto, perché entro settembre-ottobre bisogna decidere ed ogni decisione è esclusione. Anzi, bisogna decidere ben prima, per i test d’ingresso oramai previsti in molte facoltà.
Auguri ai nostri ragazzi, dunque, perché in questo periodo post-esami di maturità, e quindi di meritata vacanza, riescano con tutta sincerità a chiarire a se stessi le proprie passioni, attitudini, desideri, facciano chiarezza intorno alle competenze effettivamente maturate, al di là dei voti conquistati, ma con un occhio non troppo distratto verso le tante facce del mondo del lavoro. Università o lavoro da subito: queste le possibili opzioni. Per i liceali la scelta universitaria è quasi un obbligo, mentre per i ragazzi dei tecnici e dei professionali vi sono, oltre all’università, i corsi post-diploma e alcune richieste del mondo del lavoro.
Un suggerimento, se posso, a chi si affaccia all’università: non faccia scelte avventate e non insegua corsi di laurea dai nomi strani e che, magari, nascondono la (quasi) sicurezza del deserto di opportunità occupazionali. Inutile lamentarsi dopo, con un pezzo di carta in mano, quando scoprirà che non ci sono richieste coerenti nel mondo del lavoro col proprio indirizzo di studio. E’ una cosa sulla quale è giusto insistere sempre.
Nel frattempo, però, debbo confessare una perplessità nata proprio durante la conduzione dei colloqui degli esami di maturità.
Da un lato mi sono convinto, se non lo fossi già pienamente, che questi esami a fine ciclo sono inutili: basterebbe una certificazione puntuale e qualificata, su modello europeo, delle competenze da parte della scuola di frequenza. Senza valore legale un titolo di studio non sarebbe più un pezzo di carta ma l’effettiva preparazione a contare davvero, tant’è che le stesse facoltà universitarie che hanno previsto i test d’ingresso hanno diminuito l’incidenza percentuale del punteggio finale nel conteggio dei test, segno evidente del valore da loro attribuito agli esami di Stato.
Dall’altro lato è emerso che i nostri ragazzi hanno davvero bisogno di “soglie d’ingresso” che li aiutino a confrontarsi con persone, realtà e saperi diversi ed esterni al loro mondo di tutti i giorni. Un po’ la stessa cosa che è successa con la cancellazione della naja: oramai inutile dal punto di vista di un moderno sistema di difesa, ma importante dal punto di vista formativo per i nostri giovani, un po’ troppo protetti ed imbambolati nella loro fragilità esistenziale.
L’esame di maturità è esattamente questo, l’uscita dal guscio protettivo delle famiglie ma anche delle stesse scuole medie superiori: “mi raccomando: studia, datti da fare, non rimanere assente, perché te le segno e possono incidere sulla condotta…”. All’università e nel mondo del lavoro? Non si fanno gli esami? Non importa, ce ne sono già troppi di studenti iscritti… Non ti dai da fare in un’azienda? Per una, due volte si porta pazienza, poi “ognuno è artefice del proprio destino”. La flessibilità e la precarietà, dunque, non come postulati, ma come conseguenze delle proprie scelte (una parte del mondo sindacale e del mondo politico dovrebbe rivedere i propri criteri di valutazione intorno a questi temi!). Il ministro Fornero la verità amara l’ha detta, anche se in modo un po’ goffo: non esiste il diritto al posto di lavoro. Esiste un diritto al lavoro, mediato però dall’impegno, dalla fatica, soprattutto dal gusto verso lo studio e verso il lavoro: sono tutte forme di allenamento alla vita.
Con la conclusione degli esami di maturità i nostri ragazzi sanno, in poche parole, che è arrivato il tempo delle scelte tutte personali, che avranno, nel bene e nel male, ricadute e conseguenze per tutta la vita. Ecco, perciò, le loro legittime perplessità e titubanze di fronte alla domanda: “E adesso?”.
Un tempo i passaggi attraverso le “soglie” della vita erano più semplici, perché più semplici erano anche la composizione sociale, gli indirizzi di studio, gli sbocchi professionali: la nostra, è stata invece definita, è una società “liquida”, ove l’unica certezza è proprio l’incertezza. Di qui la responsabilità delle famiglie e delle scuole di non confondere, con modelli virtuali, il futuro dei nostri ragazzi, ma di tenere ben saldo l’aggancio ad un mondo del lavoro che non va più visto come nemico della qualità della vita. Come invece pretendono intellettuali nati vecchi, in tanti libri psico-sociali. Il lavoro come fattore nobilitante, in sintesi, della ricerca di senso individuale e sociale. Come ben recita il primo articolo della nostra Costituzione.