Siamo nel 1843. Il filosofo danese Søren Kierkegaard pubblica in tedesco, sotto lo pseudonimo di Victor Eremita, l’opera autobiografica Enten-Eller (Aut Aut), in due volumi, dove illustra i possibili modi di vivere e di concepire la vita secondo una suddivisione in “stadi di esistenza”.
Il primo stadio è quello definito “estetico”, che trova la sua icona nel Don Giovanni mozartiano, la cui vita è una continua ricerca del piacere, cogliendo l’attimo fuggente senza perdere alcuna occasione. Ma a lungo andare la giovinezza fugge, così come le occasioni, e s’insinua la noia che apre la porta alla disperazione; meglio, alla consapevolezza della disperazione (infatti il legarsi all’attimo, l’incessante passaggio da piacere a piacere, non è che inconsapevole disperazione); e questa consapevolezza costituisce la condizione primaria per l’insorgenza del bisogno di «cambiar vita», di una vita diversa.
È questo il secondo stadio, chiamato “etico” e rappresentato dalla figura del buon Guglielmo, impiegato statale e sposato, che trova nella fedeltà al suo lavoro e nella dedizione alla famiglia i valori dell’esistenza. Questa vita è fondata più solidamente di quella “estetica”, perché ha nella ripetizione volontaria delle azioni giornaliere il punto qualificante (corrisponde all’uomo di Kant, tutto moralità e impegno). Ma anche questo stadio a lungo andare mostra il suo punto debole: l’impossibilità di non infrangere nessuna legge, l’impossibilità di essere sempre coerenti, l’impossibilità di vivere una moralità assoluta, perché l’uomo è anche fragilità, incoerenza, peccato. È il momento, questo, in cui rispunta la disperazione, una disperazione non «finita», come quella legata, ad esempio, alla perdita della ricchezza, che induce l’uomo a centrarsi su di sé, ma «infinita», «assoluta», che non gli lascia altra prospettiva che «uscire fuor di sé», aprirsi ad altro, aprirsi anzi ad un altro che sia Assoluto. Solo questa disperazione è salutare, perché da essa scatta il bisogno di affidarsi a Dio, come Abramo, che è l’uomo di fede descritto da Kierkegaard in un’altra sua opera del 1843, Timore e tremore.
Ecco dunque il terzo stadio, quello appunto “della fede”, in cui l’uomo si affida totalmente a Dio. È proprio “la ripresa” il segno più evidente che la vita di fede è l’unica possibile. Infatti, paradossalmente, l’uomo che si è affidato a Dio donandogli tutto se stesso, si trova arricchito cento volte di più rispetto a quanto aveva perduto negli stadi precedenti. Kierkegaard utilizza poi la vicenda di Abramo come un’occasione per discutere problemi fondamentali, come la natura di Dio e della fede, le relazioni tra fede, etica e morale, e la difficile impresa di essere veri cristiani.
All’interno dello stadio “estetico”, nella prima sezione di Enten-Eller, sono raccolti diversi aforismi, epigrammi, aneddoti e meditazioni sulla modalità estetica della vita. Uno dei più brevi e più curiosi è il seguente: «Accadde in un teatro che le quinte presero fuoco. Il buffone uscì per avvisare il pubblico. Credettero che fosse uno scherzo e applaudirono; egli ripeté l’avviso: la gente esultò ancora di più. Così mi figuro che il mondo perirà tra l’esultanza generale degli spiritosi, che crederanno si tratti di uno scherzo» (trad. it. Aut Aut [Diapsalmata I], in Le grandi opere filosofiche e teologiche, Bompiani 2013, pp. 129-131).
Siamo nel 1968. Joseph Ratzinger, docente di teologia cattolica nell’Università di Tubinga, pubblica in tedesco il volume Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul Simbolo apostolico, che — nel primo capitolo dell’Introduzione, intitolato «È ancora possibile credere, nel mondo attuale?» — inizia così: «Chi oggi tenti di parlare della fede cristiana (…) avvertirà ben presto quanto sia ostica e sconcertante tale impresa. Avrà probabilmente subito la sensazione che la sua posizione sia descritta per filo e per segno nel noto apologo del clown e del villaggio in fiamme narrato da Kierkegaard. (…) La storiella narra di un circo viaggiante in Danimarca, colpito da un incendio. Il direttore mandò subito il clown, già abbigliato per la recita, a chiamare aiuto nel villaggio vicino, oltretutto perché c’era pericolo che il fuoco, propagandosi attraverso i campi da poco mietuti e quindi secchi, s’appiccasse anche al villaggio. Il clown corse affannato al villaggio, supplicando gli abitanti ad accorrere al circo in fiamme, per dare una mano a spegnere l’incendio. Ma essi presero le grida del pagliaccio unicamente per un astutissimo trucco del mestiere, tendente ad attirare il maggior numero possibile di persone alla rappresentazione; per cui lo applaudivano, ridendo sino alle lacrime. Il povero clown aveva più voglia di piangere che di ridere e tentava inutilmente di scongiurare gli uomini ad andare, spiegando loro che non si trattava affatto d’una finzione, d’un trucco, bensì di una amara realtà, giacché il circo stava bruciando per davvero. Il suo pianto non faceva altro che intensificare le risate: si trovava che egli recitava la sua parte in maniera stupenda… La commedia continuò così finché il fuoco s’appiccò realmente al villaggio e ogni aiuto giunse troppo tardi: villaggio e circo finirono entrambi distrutti dalle fiamme. (…) Chi tenta di diffondere la fede in mezzo agli uomini che si trovano a vivere e a pensare nell’oggi può realmente avere l’impressione di essere un pagliaccio, (…) che si presenta al mondo odierno avvolto nelle vesti e nel pensiero degli antichi, e pertanto nell’impossibilità di comprendere gli uomini dell’epoca nostra e di essere compreso da loro» (Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia 2005, pp. 31-33).
Come si può subito notare a colpo d’occhio, Ratzinger amplifica l’apologo di Kierkegaard, e ciò è sintomatico di una personalizzazione, che dilata in questo caso un testo altrui nella misura della propria esperienza, immedesimandosi in esso per comunicarla e mostrarne la pertinenza con le esigenze elementari e irrinunciabili di ogni uomo. Nelle mie letture, due sono i maestri in questa immedesimazione che ho incontrato (soprattutto riguardo ad episodi dei Vangeli): don Luigi Giussani e, oggi, l’abate Mauro Lepori.
Siamo nel 2015. La Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti pubblica un Direttorio omiletico (cui tra l’altro è dedicato l’ultimo numero della «Rivista Teologica di Lugano»). Il Decreto che lo apre così recita: «È assai significativo che nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium, Papa Francesco abbia voluto dedicare una parte considerevole al tema dell’omelia. A tale riguardo, luci ed ombre erano già state espresse dai Vescovi raccolti in Sinodo ed indicazioni in proposito sono state date nelle Esortazioni apostoliche post-sinodali Verbum Domini e Sacramentum caritatis di Benedetto XVI».
Risulta evidente come la preoccupazione espressa nel 1968 in Introduzione al cristianesimo riemerga nei documenti sopra citati del pontificato di Benedetto XVI, rispetto a certe forme di comunicazione della fede che oggi appaiono così strane da non essere prese in considerazione, o addirittura — per parafrasare l’apologo citato da Ratzinger — da suscitare risate. Anche Papa Francesco nella Evangelii gaudium tenta di definire l’omelia, dicendo che «non può essere uno spettacolo di intrattenimento, non risponde alla logica delle risorse mediatiche»; non troppo lunga: «deve essere breve ed evitare di sembrare una conferenza o una lezione»; non avere toni eccessivamente moralizzanti: «La predicazione puramente moralista o indottrinante, ed anche quella che si trasforma in una lezione di esegesi, riducono questa comunicazione tra i cuori»; a riguardo dei contenuti «non si tratta di verità astratte o di freddi sillogismi»; ne deriva pertanto un’immagine di collegamento tra le Scritture o i testi liturgici e la vita concreta di chi partecipa alla celebrazione.
Senza entrare ulteriormente nel merito di tali documenti, appare chiaro come le parole di Joseph Ratzinger scritte già nel 1968 richiamino l’esigenza che la comunicazione della fede parta da una pertinenza al vero bisogno dell’uomo, e tale pertinenza si mostra e si riscontra in un’esperienza viva, non in una teoria paragonabile a tante altre e indifferentemente assumibile.