La fama dell’artista svizzero Eugène Burnand (Moudon 1850 – Parigi 1921) è legata a un unico dipinto, I discepoli Pietro e Giovanni accorrono al sepolcro il mattino della Risurrezione. Quest’opera, eseguita nel 1898 e conservata a Parigi, al Musée d’Orsay, ha ottenuto nel corso del tempo numerose attenzioni, quasi tutte rivolte alla sua straordinaria potenza iconografica. L’autore non si è limitato a rappresentare un episodio rarissimo in campo artistico; ha scelto di approfondirlo al culmine della sua tensione emotiva. Invece di soffermarsi sull’arrivo al sepolcro – come si vede di solito nei pochi dipinti dedicati al mattino di Pasqua vissuto da Pietro e Giovanni – ha descritto il momento della corsa. Con sentimento, con partecipazione. E il risultato è un inno alla speranza. Pietro, reduce da giorni che gli hanno sconvolto la vita, ha messo da parte ogni stanchezza e, pieno di stupore, procede spedito verso il sepolcro. Giovanni, più allenato a correre, trattiene a stento le lacrime, prega a mani giunte; la sua emotività è quella di un ragazzo che non si dà pace finché non raggiunge la meta verso la quale è diretto. Sullo sfondo, la luce della Risurrezione si fa largo tra le nuvole.
Chi osserva questa scena e si aspetta che Burnand abbia raggiunto risultati così alti anche in altri dipinti rischia di rimanere deluso. La forza iconografica della tela del Musée d’Orsay costituisce un unicum nella produzione pittorica dell’artista, dedicata in larga parte a ritratti e paesaggi, per di più di basso profilo. Per ritrovare un livello qualitativo soddisfacente, qualcosa che si avvicini alla corsa di Pietro e Giovanni, dobbiamo guardare alla sua attività grafica e in particolare a due volumi da lui illustrati: uno dedicato alle parabole di Gesù, l’altro ai Fioretti di san Francesco.
Il più riuscito è probabilmente il primo, Les Paraboles, dato alle stampe dalla casa editrice parigina Berger-Levrault nel 1908 e più volte ristampato. Il libro, con chiaro scopo didattico, propone la lettura di 32 parabole tratte dai Vangeli e accompagna i testi con uno scritto introduttivo dell’erudito francese Eugène-Melchior de Vogüé e con le illustrazioni di Burnand (negli anni 20 il corpus grafico sarà riutilizzato in Italia per il volumetto Le parabole di Nostro Signor Gesù Cristo tradotte e brevemente spiegate ai piccoli e al popolo da G. Gabrieli con le illustrazioni di E. Burnand, edito da Licet).
Alle prese con le parabole, l’artista svizzero mostra spunti interessanti. Sono pochi i momenti privi di originalità. La maggior parte delle illustrazioni testimonia una vena compositiva particolarmente ispirata. Burnand non ignora gli artisti che prima di lui si sono cimentati con le parabole, ma, quando gli è possibile, cerca di dare un taglio personale al proprio lavoro.
Prendiamo ad esempio la parabola della moneta smarrita: “Quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, dicendo: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta. Così, vi dico, c’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte” (Lc 15,8-10). Nella storia dell’arte questo breve racconto di Gesù è stato utilizzato soprattutto come spunto per una scena di genere: una massaia che mette in subbuglio le proprie stanze per cercare qualcosa che ha perso. Una porzione di vita casalinga, spoglia di qualunque riferimento alla gioia che Dio prova nel riaccogliere il peccatore. Così la vedono non solo i pittori olandesi del ‘600, che per loro natura tendono a trasformare quasi ogni soggetto in una scena di genere, ma anche pittori più moderni come John Everett Millais e James Tissot. Burnand, invece, si comporta diversamente. Preferisce immortalare un altro passo della parabola: quello della gioia per il ritrovamento. E così raffigura la protagonista sul terrazzo, intenta a mostrare alle vicine la moneta recuperata. Tutte le sue attenzioni, in particolare, sono dirette al volto: la donna è inequivocabilmente stanca, la ricerca dell’oggetto perduto le è costata molta fatica, ma al tempo stesso è piena di soddisfazione e non riesce a trattenere la gioia che ha nel cuore.
Per quanto riguarda i registri espressivi, Burnand sceglie di volta in volta il più adatto al significato della parabola. Stilisticamente si muove all’interno di un realismo sobrio, a tratti un po’ timido. I modelli ai quali guarda sono soprattutto Millet e Segantini, ma non mancano le sorprese. La rappresentazione di una delle vergini stolte, ad esempio, ricorda da vicino Dante Gabriel Rossetti, mentre il volto del ricco epulone, nella sua resa quasi caricaturale, tradisce l’influenza di Honoré Daumier.
Nelle parabole narrate attraverso la sequenza di più illustrazioni, Burnand punta molto sul montaggio, sugli effetti che possono nascere dall’accostamento di scene di intonazione diversa. Un esempio è quello della vicenda del ricco stolto: “La campagna di un uomo ricco aveva dato un buon raccolto. Egli ragionava tra sé: Che farò, poiché non ho dove riporre i miei raccolti? E disse: Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò di più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia. Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio” (Lc 12, 16-21).
Il testo viene riassunto in due illustrazioni. La prima rappresenta l’uomo seduto allo scrittoio. Ha il volto arrogante, l’espressione di sfida. Sta contando il proprio denaro e, tra un sacchetto di monete e l’altro, si perde a fantasticare un futuro all’insegna del divertimento. L’anta della finestra è chiusa: sente di non aver bisogno di nessuno, è convinto che la ricchezza che si è creato gli basterà per tutto il resto della vita. La seconda illustrazione invece, con estrema sintesi, rappresenta l’uomo a letto, di notte, mentre esala l’ultimo respiro. Il significato dell’intera parabola Burnand, più che alle due illustrazioni, lo affida alla loro contrapposizione, alla frattura che si crea tra lo sciocco ottimismo della prima scena e la cruda realtà della seconda. In questo modo, oltre che un efficace commento visivo al racconto, ottiene anche una sorta di memento mori.
Le parabole di Gesù, per la profondità e la bellezza delle immagini che contengono, possiedono un’evidente dimensione figurativa fin dal loro testo. Per un artista questa dimensione è, al tempo stesso, un aiuto e un problema. Un aiuto perché offre un vasto e prezioso repertorio di situazioni. Un problema perché è difficile aggiungere qualcosa di nuovo alle immagini utilizzate, così perfette nella loro essenzialità.
Burnand si ritaglia uno spazio personale a livello iconografico: in alcuni casi inventa soluzioni completamente inedite, in altri combina tra loro modelli compositivi differenti, in altri ancora rilegge a proprio modo opere del passato. Il tutto, sempre, nel rispetto del significato centrale delle parabole. Burnand mette la verità della propria arte davanti a se stesso. Preferisce soffermarsi sul messaggio del Vangelo, anziché stravolgere il tessuto narrativo con elementi di propria invenzione. È consapevole che le parabole, pur ascoltate, lette e meditate migliaia di volte, conservano sempre qualcosa di straordinariamente vivo e attuale. Tutte le epoche hanno ricchi stolti, farisei che si credono giusti e perfetti, tralci che non portano frutto. E tutte le epoche – sembrano suggerirci le splendide illustrazioni dedicate alla parabola del figlio prodigo – hanno un Padre misericordioso pronto a gettarsi incontro ai figli scapestrati che tornano verso casa.