Com’è noto, gli atomi, i mattoni elementari di cui è costituita tutta la materia, sono oggetti estremamente piccoli. Basti pensare che nello spessore di un capello ne sono contenuti più di un miliardo. Ovviamente, essendo così minuscoli, non è possibile osservarli direttamente con uno strumento ottico. Le leggi della fisica su questo punto sono categoriche: a causa di una limitazione imposta dal fenomeno della diffrazione (nota come “limite di Abbe”), non è possibile risolvere oggetti più piccoli di mezza lunghezza d’onda della luce usata per illuminare. E la lunghezza d’onda della luce visibile è ordini di grandezza superiore alle dimensioni atomiche!
Non potendo osservare direttamente gli atomi, alcuni laboratori di ricerca hanno investito tempo e risorse per cercare di catturare almeno la loro ombra. È di questi giorni, infatti, la notizia che un gruppo di ricercatori della Griffith University in Australia è riuscito, dopo cinque anni di attività, a registrare su un supporto digitale l’ombra prodotta da un singolo atomo di Itterbio.
Il compito non era dei più facili. I problemi sperimentali che i ricercatori hanno dovuto affrontare sono stati notevoli. Come isolare un singolo atomo? Come fare a mantenerlo fermo per tutta la durata dell’esperimento? Come impedire che altri atomi presenti nell’ambiente interferiscano con la misura? Ma, soprattutto, come fare a generare un’ombra da un oggetto così piccolo?
Per portare a buon fine l’esperimento, i ricercatori australiani hanno realizzato una micro-cella con finestre ottiche in quarzo (trasparente ai raggi UV) al cui interno, per evitare interferenze con altri atomi, è stato creato un vuoto pressoché assoluto. Per mantenere in posizione l’atomo di Itterbio all’interno della cella è stata invece adottata una tecnica di confinamento elettrostatico nota come “Paul trap”. In pratica, anziché un atomo elettricamente neutro viene utilizzato uno ione di Itterbio (l’atomo privato di uno o più elettroni) che, essendo elettricamente carico, può essere mantenuto in equilibrio nella posizione desiderata mediante l’applicazione di un opportuno campo elettrico.
Ma questo ancora non basta. A causa dell’agitazione termica, infatti, l’atomo in esame continuerebbe a muoversi attorno alla sua posizione di riposo impedendo così la sua corretta localizzazione. La temperatura dell’atomo è stata perciò ridotta a pochi milliKelvin (una temperatura di poco superiore allo zero assoluto) sfruttando una tecnica di raffreddamento mediante laser sviluppata negli anni ‘90 (“laser cooling”). Questa soluzione ha consentito ai ricercatori di utilizzare la stessa sorgente laser per raffreddare l’atomo di prova e, nello stesso tempo, per illuminarlo adeguatamente.
Lo schema ottico utilizzato dal team australiano è piuttosto semplice e consiste nel focalizzare sull’atomo di test il fascio di un laser che emette a 369,5 nanometri (una radiazione nell’ultravioletto che viene assorbita dagli atomi di Itterbio). Il fascio laser viene successivamente collimato mediante una minuscola lente di Fresnel (lo stesso tipo di lente usato per proiettare le immagini nelle lavagne luminose) anch’essa alloggiata nella regione sotto vuoto. Un secondo sistema ottico, posto a valle della cella, forma infine l’immagine della regione illuminata su un dispositivo CCD raffreddato (analogo a quelli usati nelle normali fotocamere digitali).
Poiché la lunghezza d’onda del fascio di illuminazione corrisponde a una delle righe di assorbimento dell’atomo di Itterbio, parte dei fotoni che investono l’atomo vengono assorbiti e non raggiungono il rivelatore. Naturalmente il numero di questi fotoni è molto piccolo rispetto a quello complessivo dei fotoni incidenti sul dispositivo CCD, e quindi la loro assenza (ovvero l’ombra dell’atomo) sarebbe difficilmente rivelabile. Per evidenziare questo effetto, i ricercatori hanno registrato una seconda immagine modificando leggermente la lunghezza d’onda del laser (con un procedimento di “laser detuning”) in modo tale che la radiazione incidente, questa volta, non venga assorbita dall’atomo ma finisca tutta sul rivelatore.
In questo modo si hanno a disposizione due immagini: una di riferimento, in cui l’atomo non assorbe luce e una in cui invece accade l’opposto. A questo punto è sufficiente sottrarre un’immagine dall’altra per ottenere l’informazione desiderata. Il risultato è un’immagine a basso contrasto (3,1%) che riproduce l’ombra dell’atomo di prova.