L’aumento del numero dei Neet, i giovani tra i 15 e i 29 anni che non sono impegnati né in un percorso formativo, né occupazionale (“Not in Education, Employment or Training”), è tale da dover essere segnalato come motivo di preoccupazione non solo a chi gestisce le sorti del Paese, ma anche a tutti coloro (docenti, dirigenti, formatori) che sono affaccendati a mandare avanti la scuola di tutti i giorni, quella che accoglie i giovani al mattino e li rispedisce a casa al termine delle lezioni. Infatti la questione che sta alla base del “fenomeno Neet” si impernia su un’osservazione indovinata di Giuseppe Roma, direttore del Censis, il quale ebbe a dire, qualche tempo fa, che “la scuola non è più vissuta come occasione di miglioramento perché offre pochi sbocchi… Paghiamo anche una cultura che vede nel lavoro manuale un impiego di serie B. Servirebbe un investimento nel venture capital, per permettere ai giovani di fare impresa, e nell’istruzione intermedia…” (riportato in left 24, 16 giugno 2012).
Lo spessore di questa deriva sociale è sottoposto ai continui monitoraggi degli organismi internazionali. Secondo i dati Ocse, in Italia la quota di giovani Neet è molto superiore a quella della media europea per tutte le fasce d’età. Nel 2010 i giovani Neet avrebbero raggiunto quota 2,3 milioni e oggi quasi un giovane su 4 della fascia d’età 15-29 sarebbe nella condizione di quasi totale inattività (tranne piccoli lavoretti e intere notti passate a chattare). Siamo consapevoli di questo baratro che si è aperto tra vecchie e nuove generazioni? Ne è consapevole fino in fondo la scuola attiva, quella che dedica percorsi e progetti all’orientamento, alla informazione, alla scelta degli indirizzi?
Bisogna forse cambiare sguardo e passo: si tratta di un capitale umano che non ha semplicemente deciso di collocarsi fuori di un certo assetto costituito da famiglia-scuola-università-lavoro. Più radicalmente, si tratta di una domanda di educazione (cioè di ingresso nella realtà) che probabilmente non è mai stata colta. Per quali ragioni? Proviamo a indicarne due: l’eccessiva rigidità del sistema scolastico e l’eccessiva burocratizzazione delle modalità di insegnamento.
Il sistema scolastico italiano, sebbene abbia incamerato di recente riforme di ordinamento molto importanti è ancora strutturato secondo l’immagine delle canne d’organo non comunicanti. Sono stati varati, è vero, nuovi licei e nuovi istituti tecnici e professionali; è stato modificato, in profondità, il sistema dell’istruzione e formazione professionale (IeFP) in seguito agli accordi in conferenza Stato-Regioni che hanno individuato modelli e competenze specifiche delle varie figure professionali.
Con tutto ciò, tuttavia, non si può dire che il Paese possieda, accanto all’istruzione liceale e tecnica, un “canale” dell’istruzione e formazione professionale degno di questo nome. Il motivo è da attribuire alla discutibile quinquennalizzazione degli istituti professionali (ministro Fioroni), che possono rilasciare solo diplomi mentre la facoltà di rilasciare qualifiche triennali e quadriennali in accordo con l’IeFP è concessa nella modalità del regime di sussidiarietà. Istruzione professionale e IeFP tuttavia presentano contesti diversificati a seconda delle Regioni e delle normative locali che ne regolamentano i rapporti. In alcuni casi (Emilia Romagna; Toscana; Friuli) la sussidiarietà è intesa come “integrativa” e la formazione professionale è tenuta a collegarsi con l’istruzione che ha una “sua” velocità (2+2+1) non sempre compatibile con la medesima formazione professionale. In altri casi (Lombardia; Veneto) prevale la sussidiarietà complementare che conferisce ai percorsi di istruzione e formazione professionale, promossi dai centri accreditati, una più piena ed efficace autonomia.
Appare evidente, quindi, la frammentazione, nonostante l’esistenza sul territorio nazionale di tentativi di rapporto tra istruzione e lavoro pienamente riusciti ed efficaci. Ma in taluni casi, come per una certa opposizione alla legge sull’apprendistato come canale di ingresso di giovani formati e qualificati nel mondo del lavoro, è ancora l’ideologia che prevale, quella appunto contestata da Giuseppe Roma quando denuncia il rifiuto della cultura del lavoro.
La conseguenza è ancora quella di una certa distanza (o diffidenza) che separa il mondo dell’istruzione dal mondo del lavoro, non fosse altro perché non sempre all’impresa è facile leggere le competenze di tipo professionale certificate dalla scuola.
Si entra così in un secondo ambito di problemi, quello della didattica e dell’insegnamento che, nonostante le riforme e le nuove linee guida degli istituti tecnici e professionali, conserva una scarsa flessibilità, al netto della buona volontà degli insegnanti (a volte veramente encomiabile) che gli alunni problematici li vanno a cercare, li seguono anche oltre le ore di lezione, li sottraggono per quanto possibile alle facili tentazioni della strada.
La flessibilità, la creatività, la possibilità di modulare l’oggetto della proposta didattica secondo soluzioni non rigidamente curricolari costituiscono il cuore delle migliori esperienze di formazione professionale, in cui l’approccio al lavoro non è episodico ma propedeutico alla conoscenza. Si conosce la realtà non perché “si parla” del lavoro, ma perché attraverso il lavoro (la pasticceria, il tornio, il ristorante didattico, etc.) si allarga la mente dell’alunno a tutte le condizioni che rendono “quel” lavoro utile alla realtà e alla collettività.
La soluzione del dramma dei Neet è anche legata alla prospettiva di un rinnovato dialogo tra l’ambito dello studio “teorico” e l’attività lavorativa intesa non come espediente, ma forma propedeutica ad un interesse per la realtà che parte da un approccio pratico.
È infatti l’interesse per un particolare che accende la conoscenza per l’insieme in cui il particolare si colloca. Ancora una volta, tuttavia, il dialogo e la reciproca contaminazione tra l’istruzione professionale e la formazione professionale di qualità, deve avvenire sulla base di una riflessione su esperienze significative in atto nell’uno o nell’altro settore. È possibile, in parte lo si sta facendo, come documenta la Bottega Lavoro di Diesse, che sta costruendo un archivio di contatti ed esempi in tal senso. Esistono certamente anche altri album di memorie. È importante, soprattutto, che in questo campo, quello del recupero dell’abbandono e del disagio scolastico, che ciascuno faccia la sua parte, in modo che il passaggio di competenze dallo Stato alle Regioni non diventi occasione di nuove pastoie burocratiche. Come sempre è accaduto, è vedendo e sperimentando qualcosa di utile per me e che mi fa crescere, che mi convinco dell’opportunità di restare nel percorso intrapreso. È in questo senso che la domanda dei Neet chiede di essere accolta.