La notizia sta sui giornali di ieri: «no da decine di scuole al minuto di silenzio», il minuto deciso dal Ministro Gelmini per ricordare i sei militari italiani uccisi in Afghanistan. «Se proprio va osservato un minuto di silenzio – ha osservato una dirigente di scuole elementare romana – deve essere dedicato a tutte le vittime che muoiono sul posto di lavoro; del resto anche quei soldati stavano facendo il loro lavoro». Insomma: mercenari! Se la sono cercata. Meglio se fossero caduti da un’impalcatura! Aggiunge un’altra dirigente: «Non è stata una scelta polemica, ma pedagogica. In ogni caso una vera missione di pace va fatta con dottori e insegnanti, non con i militari». Il Ministero aveva emanato una circolare. Scuole, famiglie, docenti, dirigenti si sono opposti in un numero che non è possibile accertare, ma che risulta alto soprattutto in alcune Regioni del Nord: Lombardia, Veneto, Piemonte, Liguria. Vi si confondono motivazioni diverse, di segno spesso opposto. Il neo-isolazionismo leghista è contrario o tiepido non da oggi circa le missioni militari di pace dell’Italia, sia per ragioni di solidarietà e di difesa di identità etniche – basterà ricordare il sostegno fornito da Bossi a Milosevic, all’epoca dei massacri serbi in Erzegovina e in Kossovo – sia per un antistatalismo, che riduce la patria allo stato centralistico. Il neo-isolazionismo di sinistra muove da considerazioni diverse: alcune sono storiche (no alla Nato!), altre più recenti, intrise di pacifismo retorico da anime belle. Sì, ci sarebbero i diritti umani. Ma la loro difesa è affidata alla predicazione. Sfugge il particolare che il diritto non diviene effettuale senza la possibilità concreta dell’uso della forza che lo renda praticabile. Non è questo il contesto per una simile discussione. Quel che importa far notare qui è che la circolare ministeriale ha come oggetto e occasione concreta drammatica ed evidente “l’educazione alla cittadinanza”. La posta in gioco di questa educazione è portare i ragazzi alla coscienza di una storia e di un destino comune della patria. Significa farli entrare nella patria. Su questa parola pesano negativamente gli anni del fascismo e prima del colonialismo. Continua a pesare l’8 settembre. I venti della globalizzazione soffiano sui fragili muri delle patrie nazionali, dissolvendo identità, tradizioni, culture. Che dire? È singolare, intanto, e fortemente contraddittorio, che dirigenti e insegnanti, che difendono con le unghie e con i denti la loro condizione di dipendenti dello Stato contro presunte e fantasiose privatizzazioni, allorché arriva una circolare ministeriale-statale su un oggetto così drammatico e decisivo decidano allegramente che loro con lo Stato non c’entrano. Si può non condividere la linea di un governo su temi di politica interna o estera, ma se sei impiegato dello stato, fa parte del tuo contratto che tu pieghi le tue opinioni al ruolo che eserciti. Fuori dalle scuole i cittadini, compresi quelli che insegnano, hanno diritto e hanno gli strumenti per battersi contro le politiche del governo. Sul posto di lavoro statale no.
Ma la questione essenziale è quella pedagogica. Qual è il concetto di cittadinanza e quindi di educazione alla cittadinanza che funge da “coiné” nel mondo culturale politico-sindacale che ruota attorno alla scuola? È una melassa dolciastra, che racconta la storia del mondo e degli stati come una lenta, ma inesorabile ascesa verso la pace universale. Kant è il più citato. Il suo libretto “Per la pace perpetua perpetua” – Zum ewigen Frieden – del 1795 ipotizza la costruzione di un assetto giuridico-istituzionale mondiale e dei singoli stati in grado di assicurare la pace mondiale, il governo del mondo. Hegel e i due secoli successivi hanno spazzato via la generosa illusione illuministica del filosofo di Koenisberg. L’illusione del governo mondiale si è riaffacciata dopo il 1989. Le guerre bosniache e l’11 settembre hanno di nuovo fatto terra bruciata. Educare i nostri ragazzi alla cittadinanza significa, in primo luogo, spiegare loro la storia del mondo così com’è, senza la cortina fumogena di un pacifismo artificiale che nasconda gli spigoli, la violenza, i massacri, il fiume di sangue che la attraversa. Se le buone intenzioni di pace universale non vengono confrontate con la realtà, l’effetto è la fuga dalle responsabilità, il contrario dell’educazione alla cittadinanza. Il ruolo della patria deve essere definito in questo contesto mondiale. È possibile e a volte eticamente necessario intervenire con le armi a difesa dei diritti umani calpestati, contro i genocidi ricorrenti in Europa, in Africa, in Asia. L’art. 11 della Costituzione, scritto in un’altra epoca, vieta la guerra di aggressione, non le missioni militari in difesa di uomini e donne calpestati e oppressi. Il nostro Paese si è assunto delle responsabilità nel mondo. I nostri ragazzi devono essere educati ad assumersi responsabilità in un Paese, che si assume responsabilità nel mondo, insieme ad altri. Serve, per questo, una lunga e radicale battaglia culturale tra gli insegnanti e i dirigenti.